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1 File per il supporto dell'italiano in dasher.
2 Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana, i loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo;
3 Considerato che il disconoscimento ed il disprezzo dei diritti dell'uomo hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell'umanità e che l'avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell'uomo;
4 Considerato che è indispensabile che i diritti dell'uomo siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l'uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l'oppressione;
5 Considerato che è indispensabile promuovere lo sviluppo di rapporti amichevoli tra le Nazioni;
6 Considerato che i popoli e le Nazioni Unite hanno riaffermato nello Statuto la loro fede nei diritti fondamentali dell'uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell'uguaglianza dei diritti dell'uomo e della donna, ed hanno deciso di promuovere il progresso sociale e un migliore tenore di vita in una maggiore libertà;
7 Considerato che gli stati membri si sono impegnati a perseguire, in cooperazione con le Nazioni Unite, il rispetto e l'osservanza universale dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali;
8 Considerato che una concezione comune di questi diritti e di queste libertà è della massima importanza per la piena realizzazione di questi impegni;
9 L'ASSEMBLEA GENERALE PROCLAMA:
10 la presente Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo come ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, al fine che ogni individuo ed ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l'insegnamento e l'educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale ed internazionale, l'universale ed effettivo riconoscimento e rispetto tanto fra i popoli degli stessi Stati membri, quanto fra quelli dei territori sottoposti alla loro giurisdizione.
11 art. 1:
12 Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.
13 Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione.
14 Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del paese o del territorio cui una persona appartiene, sia che tale territorio sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi altra limitazione di sovranità.
15 Ogni individuo ha diritto alla vita, alle libertà ed alla sicurezza della propria persona.
16 Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma.
17 Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudele, inumani o degradanti.
18 Ogni individuo ha diritto, in ogni luogo, al riconoscimento della sua personalità giuridica.
19 Tutti sono uguali dinanzi alla legge, e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad un'eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto ad un'eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione, come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione.
20 Ogni individuo ha diritto ad un'effettiva possibilità di ricorso a competenti tribunali nazionali contro atti che violino i diritti fondamentali a lui riconosciuti dalla costituzione o dalla legge.
21 Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato.
22 Ogni individuo ha diritto, in posizione di piena uguaglianza, ad un'equa e pubblica udienza davanti ad un tribunale indipendente e imparziale, al fine della determinazione dei sui diritti e dei suoi doveri, nonché? della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta.
23 Ogni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo nel quale egli abbia avuto tutte le garanzie necessarie per la sua difesa.
24 Nessun individuo sarà condannato per un comportamento commissivo od ommissivo che, al momento in cui sia stato perpetrato, non costituisce reato secondo il diritto interno o secondo il diritto internazionale. Non potrà del pari essere inflitta alcuna pena superiore a quella applicabile al momento in cui il reato sia stato commesso.
25 Nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a lesioni del suo onore e della sua reputazione. Ogni individuo ha diritto ad essere tutelato dalla legge contro tali interferenze o lesioni.
26 Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato.
27 Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese.
28 Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni.
29 Questo diritto non potrà essere invocato qualora l'individuo sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite.
30 Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza.
31 Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza.
32 Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione. Essi hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all'atto del suo scioglimento.
33 Il matrimonio potrà essere concluso soltanto con il libero e pieno consenso dei futuri coniugi.
34 La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato.
35 Ogni individuo ha il diritto ad avere una proprietà sua personale o in comune con altri.
36 Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua proprietà.
37 Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell'insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell'osservanza dei riti.
38 Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.
39 Ogni individuo ha diritto alla libertà di riunione e di associazione pacifica.
40 Nessuno può essere costretto a far parte di un'associazione.
41 Ogni individuo ha diritto di partecipare al governo del proprio paese, sia direttamente, sia attraverso rappresentanti liberamente scelti.
42 Ogni individuo ha diritto di accedere in condizioni di eguaglianza ai pubblici impieghi del proprio paese.
43 La volontà popolare è il fondamento dell'autorità di governo; tale volontà deve essere espressa attraverso periodiche e veritiere elezioni, effettuate a suffragio universale ed eguale, ed a voto segreto, o secondo una procedura equivalente di libera votazione.
44 Ogni individuo, in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale, nonché? alla realizzazione, attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale ed in rapporto con l'organizzazione e le risorse di ogni Stato, dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità ed al libero sviluppo della sua personalità.
45 Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell'impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione.
46 Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro.
47 Ogni individuo che lavora ha diritto ad una remunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia un'esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, ad altri mezzi di protezione sociale.
48 Ogni individuo ha il diritto di fondare dei sindacati e di aderirvi per la difesa dei propri interessi.
49 Ogni individuo ha il diritto al riposo ed allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite.
50 Ogni individuo ha il diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all'alimentazione, al vestiario, all'abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari, ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà.
51 La maternità e l'infanzia hanno diritto a speciali cure ed assistenza. Tutti i bambini, nati nel matrimonio o fuori di esso, devono godere della stessa protezione sociale.
52 Ogni individuo ha diritto all'istruzione. L'istruzione deve essere gratuita almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali. L'istruzione elementare deve essere obbligatoria. L'istruzione tecnica e professionale deve essere messa alla portata di tutti e l'istruzione superiore deve essere egualmente accessibile a tutti sulla base del merito.
53 L'istruzione deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana ed al rafforzamento del rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Essa deve promuovere la comprensione, la tolleranza, l'amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi, e deve favorire l'opera delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace.
54 I genitori hanno diritto di priorità nella scelta di istruzione da impartire ai loro figli.
55 Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici.
56 Ogni individuo ha diritto alla protezione degli interessi morali e materiali derivanti da ogni produzione scientifica, letteraria e artistica di cui egli sia autore.
57 Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e la libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati.
58 Ogni individuo ha dei doveri verso la comunità, nella quale soltanto è possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità.
59 Nell'esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà, ognuno deve essere sottoposto soltanto a quelle limitazioni che sono stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e della libertà degli altri e per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell'ordine pubblico e del benessere generale in una società democratica.
60 Questi diritti e queste libertà non possono in nessun caso essere esercitati in contrasto con i fini e i principi delle Nazioni Unite.
61 Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di qualsiasi Stato gruppo o persona di esercitare un'attività o di compiere un atto mirante alla distruzione dei diritti e delle libertà in essa enunciati.
62 Fratelli d'Italia, l'Italia s'è desta; dell'elmo di Scipio s'è cinta la testa.
63 Dov'è la Vittoria? Le porga la chioma; ché schiava di Roma Iddio la creò.
64 Stringiamci a coorte! Siam pronti alla morte; Italia chiamò.
65 Noi siamo da secoli calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi.
66 Raccolgaci un'unica bandiera, una speme: di fonderci insieme già l'ora suonò.
67 Stringiamci a coorte! Siam pronti alla morte; Italia chiamò.
68 Uniamoci, amiamoci; l'unione e l'amore rivelano ai popoli le vie del Signore.
69 Giuriamo far libero il suolo natio: uniti, per Dio, chi vincer ci può?
70 Stringiamci a coorte! Siam pronti alla morte; Italia chiamò.
71 Dall'Alpe a Sicilia, dovunque è Legnano; ogn'uom di Ferruccio ha il core e la mano; i bimbi d'Italia si chiaman Balilla; il suon d'ogni squilla i Vespri suonò.
72 Stringiamci a coorte! Siam pronti alla morte; Italia chiamò.
73 Son giunchi che piegano le spade vendute; già l'aquila d'Austria le penne ha perdute.
74 Il sangue d'Italia e il sangue Polacco bevé col Cosacco, ma il cor le bruciò.
75 Stringiamci a coorte! Siam pronti alla morte; Italia chiamò.
76 Un trattato, un trattato vero, e non una raccolta di racconti come questa, avrei voluto scrivere per dimostrare che l'ozio non è il padre dei vizi, come ci hanno insegnato alla prima elementare, ma è il padre della civiltà umana, per sostenere che all'ozio si ha veramente diritto.
77 Sì, turiamoci pure le orecchie nel sentire che gli antichi chiamavano il lavoro figlio dell'Erebo e della Notte. Noi moderni ci siamo fatti un idolo del lavoro, cui tutti siamo obbligati a bruciare il nostro granellino di incenso e si parla di diritto al lavoro, di scuola del lavoro, di problematica del lavoro, di filosofia, ahimè, del lavoro.
78 E quando non siamo occupati col lavoro, abbiamo l'hobby: questa orrenda parola che si usa persino per indicare la pura e disinteressata attività dello spirito e dell'arte, che sarebbe invece più onesto chiamare a piene lettere ozio, come facevano gli antichi.
79 Ma a noi le concezioni degli antichi sembrano eresie. Se riuscissimo ad essere meno ipocriti, forse riconosceremmo che essi avevano ragione nel considerare l'ozio come lo stato migliore perché l'uomo potesse attuare veramente se stesso, per ascendere negli spazi della teoresi e nei cieli dell'arte, per essere fedele alla sua missione spirituale.
80 E poiché  la civiltà umana è soprattutto creazione spirituale: arte, filosofia, scienza, invenzione, apparirà chiaro, innegabile che l'umano progresso è frutto dell'ozio, anche se, ovviamente, l'uomo, cui basta dire  fiat lux per creare la luce, ha dovuto, per realizzare le creazioni del suo ozio, per attuarle nel mondo sensibile, piegarsi al lavoro.
81 Volete un esempio? Guardiamo l'Oriente.
82 Sediamoci ai piedi di una piramide e stiamocene lì per ore e ore, fino a sentirci trasformare in un granello di sabbia nel deserto, su cui incombe feroce il sole, fino ad avvertire l'immensa nullità di quella categoria  mentale che chiamiamo tempo....
83 Non lo possiamo fare? E allora è inutile che parliamo dell'Oriente. Come potremmo comprendere, infatti, il perché sia l'anima orientale la più incline alla contemplazione, all'ascesi, al nirvana, la più bisognosa quindi di liberarsi dai vincoli della materia?
84 Non basta dire che le plaghe orientali, dal clima caldo o caldo-umido, sono la zona del mondo che maggiormente induce l'uomo all'abbandono, alla sonnolenza, all'ozio. Questa è una constatazione meramente esteriore.
85 Bisognerebbe penetrare nell'anima dell'Oriente, per capire l'ozio dell'Oriente.
86 Se non ci liberiamo della buccia di uomini moderni, potremo fare delle eccellenti osservazioni, ma non avremo capito niente lo stesso.
87 Potremo, pensando che è proprio l'Oriente la culla dell'umana civiltà, spiegarci il perché l'ozio sia stato considerato, in tutte le civiltà antiche, come lo stato perfetto che si addiceva alle classi superiori e agli spiriti eletti. Potremo rilevare che le classi superiori e gli spiriti eletti avevano l'ozio assicurato perché gli schiavi lavoravano per loro. Non senza a questo punto storcere il muso al ricordo dell'istituto giuridico della schiavitù, perché noi moderni ne parliamo, quasi senza accorgercene, con una sottintesa aria di superiorità e di disgusto verso gli antichi, dimenticando, magari, che la schiavitù fu praticata dall'umanità fino a pochi anni fa e forse esiste tuttora sotto altro nome.
88 Ma, quando avremo rilevato tutto ciò, l'anima dell'Oriente resterà per noi il miraggio che si allontana man mano che ci si avvicina.
89 E' con le piramidi, invece, che dobbiamo parlare per avvicinarci, almeno un pochino, davvero al miraggio.
90 E' vero che vi hanno costruito a forza di bastonate e per soddisfare l'assurda ambizione di un tiranno pazzo e di una classe dirigente più pazza?
91 Le piramidi sorridevano di compatimento.
92 Ma Erodoto, che è venuto a vedervi dopo circa duemila anni dalla vostra costruzione, ha scritto che il ricordo delle fatiche che eravate costate e dei mezzi oppressivi ed inumani usati durava così vivo, ancora ai suoi tempi, che i nomi di Cheope, Kephren e Mykerinos suonavano come quelli di tiranni.
93 Ed ecco, per tutta risposta, il sorriso delle piramidi divenir simile a quello della non lontana Sfinge.
94 E ci fu gente che una volta capì il sorriso delle piramidi: era un invito a misurarle e si trovò (o si credette di trovare) che nelle dimensioni di esse erano nascoste e fissate sulla pietra cognizioni e misure astronomiche, geodetiche e matematiche, che solo da recente la scienza riusciva ad attingere: la densità e il raggio della terra, la lunghezza del meridiano, il rapporto fra circonferenza e diametro e, pare addirittura, la distanza della terra dal sole e l'inclinazione dell'asse della terra sul suo piano di rotazione.
95 Espressione di superbia e di tirannide, dunque le piramidi?
96 Noi le guarderemo ancora e, anche se non crederemo a ciò che matematici, astronomi e teosofi fantasiosi vi hanno trovato, ci inchineremo dinanzi a quel mistero meraviglioso, che solo l'ozio di una classe elevata, veramente sovrumana e quasi divina, ha potuto creare. Un ozio che era inimmaginabile saggezza e sapienza, che era studio profondo e ricerca ansiosa del vero, che era vera liberazione dello spirito dalle catene della materia.
97 Gli esempi potrebbero essere portati a migliaia e si finirebbe davvero per scrivere un trattato.
98 Ma se non è proprio un trattato questa raccolta di racconti, ne vuole avere almeno l'aria e simularne l'apparenza. Ecco perché un primo gruppo di racconti sono riuniti sotto l'ampolloso titolo di..."Prolegomeni storici e teoria generale", mentre l'altro gruppo null'altro rappresenta che alcune dimostrazioni pratiche del mio oziare.
99 Di tanto in tanto sul Parnaso e sull'Elicona  spira un vento allarmistico: "Siamo in crisi, siamo in crisi". Né mancano le recriminazioni fra le nove sorelle e Apollo stesso: - Ma chi te l'ha fatto fare di infondere il furor poetico nella zucca di quel tale? - E tu cosa speravi di trarne da quello sciocco? - Hai visto in che stato è la poesia lirica? - E quella epica? - E quella drammatica?
100 Scene di questo genere oggi sono all'ordine del giorno, ma anticamente succedevano di rado.
101 Un allarme grave si ebbe quando, alla morte di Omero, una frotta intera di...come dire? Di mandolinisti si misero a fare i poeti epici. Ne vennero fuori i cosiddetti poemi ciclici e non occorrono certo i sapientoni moderni per statuire circa la decadenza della poesia greca, perché se ne accorsero già gli antichi, che a quei barbosissimi poemi resero presto giustizia, facendosene lacci per i calzari, se scritti su pergamena, e strame per le mucche se scritti su papiri.
102 Un bel giorno, dunque, le nove sorelle, dopo aver litigato ben bene, si proposero di cercarlo tutt'e nove insieme un nuovo poeta e, se anche quello faceva cilecca, allora bisognava portare la faccenda in Olimpo (in Parlamento per dirla in termini moderni) per una discussione generale sull'argomento, ponendo eventualmente anche la questione della fiducia al governo della repubblica delle lettere.
103 Le nove figlie di Giove si misero quindi in cammino e caso volle che si imbattessero in un pastorello, che aveva spinto il suo gregge sulle pendici dell'Elicona. Egli suonava la zampogna e le note dolcissime che sapeva far sprigionare da quell'umile strumento colpirono le Muse, che decisero di apparirgli in tutto il loro splendore divino e di parlargli.
104 Il fanciullo, che si chiamava Esiodo, scossosi dal primo sgomento e caduto in ginocchio chiese:
105 Che vuole il Cielo da me, umile pastore di Beozia?
106 Farti poeta - risposero le Muse - trarre la grandezza dall'umiltà.
107 Poeta? E di che canterò io? - replicò Esiodo.
108 Le Muse pensarono un po', si guardarono fra loro, poi Polimnia, che aveva il cervello un po' meno circoscritto ad una sola cosa che non le sue sorelle, ebbe un'idea:
109 Canterai del lavoro - disse - L'ozio è degli immortali, il lavoro degli uomini. Parla dunque agli uomini di ciò che spetta loro. Del resto voi greci non avete in odio il lavoro manuale. Che sta a significare il mito di Dedalo? Che anche gli artigiani, i costruttori e gli inventori possono attingere la fama e la grandezza.
110 Ma - obiettò il fanciullo - nel nostro primo e più grande poeta, Omero, i grandi e gli eroi aborriscono dal lavoro.
111 L'obiezione era tutt'altro che infondata. Ma qui prese la parola Erato, abituata a dire e ispirare menzogne nelle poesie amorose, facile ad improvvisare e sempre pronta a metter su un discorsetto zeppo di bugie:
112 Ti sbagli. Se gli artigiani fossero schiavi o pressoché tali, se il lavoro manuale fosse vergogna, Omero non si sognerebbe di nominare i costruttori delle armi e dei palazzi dei suoi eroi. E vulcano che fa? Non lavora forse? E Ulisse non si era costruito il letto con le sue mani? La poesia ha bisogno di rinnovarsi per non morire. Basta con gli eroi e le battaglie. Altri argomenti devono essere chiamati a vivere nell'eternità del canto. Spetta a te far poesia della fatica, del sudore che gli uomini versano per strappare alla terra molto spesso improba, sterile, come la tua arida regione, il sostentamento della loro grama esistenza. Sì, fanciullo, il lavoro è il retaggio degli uomini, da quando essi perdettero, per volere degli dei, il segreto della vita facile, che conducevano all'età beata in cui la terra dava spontaneamente i suoi frutti. Piegarsi alla fatica per poter vivere è la condizione cui è sottoposta la quinta stirpe degli uomini, quella succeduta all'età dell'oro, dell'argento, del bronzo e degli eroi.
113 Oh come - interrompe lamentandosi il fanciullo - avrei voluto non appartenere a questa età, o morendo prima o venendo più tardi alla luce (bell'affare avrebbe fatto, pensiamo noi moderni) poiché questa è la stirpe di ferro!
114 E di questa esclamazione Esiodo serbò precisa memoria, tanto che la inserì paro paro nel poema "Le opere e i giorni".
115 Il lavoro - intervenne a questo punto Euterpe - è fatica, sofferenza, dura necessità e tale resterà in tutti i poeti che verranno dopo di te: Euripide e Virgilio, Orazio e Ovidio. Ma tu, fanciullo, che pure conoscerai la durezza della vita quotidiana: la fallita attività commerciale del padre, una controversia ereditaria con il fratello, che finirà per te sfavorevolmente per la corruzione dei giudici, gli stenti per procurarsi i mezzi di sussistenza, non dipingerai la vita a fosche tinte e dirai del lavoro, che è penoso ma dà soddisfazioni. La fede nella giustizia e soprattutto nella religiosità e santità del lavoro aleggerà sui tuoi versi. Lavora, dirai tu ai tuoi simili, perché dove sta il lavoro non sta la povertà con tutti i suoi mali. Nessun lavoro è vergogna, oziare invece è vergogna.
116 Così fu che Esiodo, ingannato da tutte queste menzogne, si mise a cantare la bellezza del lavoro e da allora si venne formando quel falso luogo comune che il lavoro nobilita l'uomo.
117 Ma che era matto quello lì? Ahò, pensate, non c'era romano che non si desse da fare, menando le mani e la spada, per fare Roma sempre più grande, che il mondo pareva che a un certo punto scoppiasse, talmente non poteva più contenere la potenza di 'sto popolo... e quel frescone manco se ne dava per inteso.
118 E s'era messo a fare certe poesie - 'na vigliaccata, figlio d'una mignotta! - laonde per cui il mondo così non andava bene, che quant'era meglio starsene sdraiato all'ombra di un albero a pigliarsi la frescura (e chi glielo faceva fa' a certuni di fare guerre!), che maledetto chi aveva inventato la spada e maledetto di qua e maledetto di là e che ci venga un accidente a questo e un accidente a quello e che "te possino..." a destra e  "te possino..." a sinistra... e finalmente un giorno Marte si stufò.
119 V'han detto che Marte era un dio. Non date retta. Si trattò di un ministro della guerra che visse così a lungo, all'animaccia sua, che a un certo punto il popolo si mise a dire: "E che è immortale?" Ma a furia di chiederselo a vicenda , ci fu uno che un giorno non mise più il punto interrogativo e tutti ci abboccarono che fosse immortale. Quando crepò, i governanti che ormai ci tenevano che quei pecoroni dei popolani credessero di avere un ministro della guerra immortale e divino, fecero finta di niente. Dice: "Marte dov'è?" "Niente, niente, s'è fatto una passeggiata in cielo, ma ora torna" e gli fecero un tempio, che levati!
120 Ai tempi di Tibullo Albino (lui, poi, per snob si fece chiamare Albio Tibullo) il predetto signor ministro viveva ancora e si volle passar lo sfizio di andargliene a dire quatto sul grugno a questo poeta. Voi dite: un ministro in persona... un momento, vi rispondo, innanzi tutto a quei tempi i ministri erano così, alla buona, e poi con quella sorta di propaganda che faceva, c'era da mandarlo, il signor Tibullo, dritto dritto in galera per disfattismo e non so quant'altri reati previsti dal codice penale.
121 Dunque, ci andò e lo trovò nella sua villa di campagna a pancia all'aria, gonfio di salsiccia e di vino. E si capisce! Lui era il cantore degli dei agresti e dei campi e lui stesso con le sue mani, diceva il bugiardo, lavorava il podere. Bel modo di lavorare!
122 A li mortacci tui! - lo interpellò senza tante storie il ministro.
123 A sor ministro - replicò pronto il poeta - i miei penati li lasci in pace, perché se no io lo denuncio per bestemmia e le pianto una grana con interpellanze alla camera e scandali, che se ne accorgerà.
124 Senta, signor poeta dei miei calzari, stia zitto e badi che se non la smette di fare quella sorta di poesie, altro che fare delle minacce, te faccio fa' una brutta fine, te faccio.
125 Ahò, ma dico...
126 Niente dico. Dico io invece: ma tu saresti un poeta romano?
127 Dico che lei maledice la guerra e dimentica che le guerre ci hanno fatti quelli che siamo; chiama barbaro chi primo impugnò la spada e si dimentica che se noi posiamo la spada, saranno gli altri, i barbari, a farci una carezzina sul collo con la spada. Ma che te se' ammattito? Ma ci pensi...
128 Sì, va bene, ma non è finita. Lei, caro poeta, ne scrive di porcate... No, non interrompa. Che è questo esaltare i lavori manuali? Poeta degli schiavi, ecco cosa è lei. Ma non pensa che il cittadino romano non può, non deve lavorare? Che l'avremmo fatte a fa' le leggi frumentarie? Il romano deve vivere a spese dell'annona, dello stato, cioè dei bottini di guerra. Diritto all'ozio, sissignore. Ma deve essere sempre pronto a menare le mani e, in  tempo di pace, deve pensare alla politica, altro che risuolare scarpe e spaccare pietre.
129 Ma io non mi sogno di esaltare questi lavori, io canto il lavoro dei campi, io glorifico la civiltà di Roma che è civiltà agreste. L'Eneide è o non è un'epopea di contadini?
130 Prego, signor ministro. Mi sa che lei non se ne intende proprio di storia.  E Cincinnato?  'ndove lo mettemo? ched'è Cincinnato?  Non è l'ideale del cittadino, agricoltore?
131 Ma va là, poeta, non facciamo anche noi i laudatores temporis acti, come quel vecchio rosso cafone di Tuscolo.  Sì, può darsi che le occupazioni agresti siano state rispettate dai romani di allora, ma si trattava di allenamento alle fatiche della guerra.  L'ideale del cittadino piccolo agricoltore!  Puah, che schifo!  Lasciale dire al pedantissimo censore, al cafone sullodato, queste cose.  Egli, poveretto, doveva brontolare: era suo destino; l'antica civiltà romana che doveva salvarsi dalle pestifere esalazioni dell'influsso ellenistico; il selciato delle piazze che doveva essere aguzzo per evitare che i cittadini si fermassero a chiacchierare e perdessero tempo; le mogli dei magistrati che non potevano essere ritratte in statue... per non citare che alcune delle imbecillerie del vecchio bisbetico.  Egli non poteva capire che il romano era ed è grande, perché ha assorbito e assorbe tutte le civiltà e le supera con la sua, perché non ha né può avere una morale da padrone di fattoria, da fuligginoso contabile, da zappatore, ma ha quella del superbo dominatore, del padrone di turbe di lavoratori, del signore ozioso e guerriero.
132 Ma Tibullo, distrattosi, non dava più retta a questa lunga tirata.  Il suo sguardo spaziava per la campagna intorno.
133 Sì - disse dopo un po' - forse hai ragione, il lavoro dei campi è un vagheggiamento letterario, che può però divenire la più cara delle nostalgie, la nostalgia per un mondo felice e perduto, forse per sempre. 0 fortunatos nimium, sua si bona norint agricolas, sì, le Georgiche non sono che l'epicedio, di un mondo scomparso.  Scomparso, ma non per questo meno bello.
134 Il signor ministro Marte rimase zitto un bel po'.  Sentiva d'essere stato battuto e se ne compiacque.  Ma come?  Sì, gli piaceva questa sottile malinconia che gli aveva messo addosso il poeta.
135 Ma sai che ti dico - riprese dopo un po' - non prendiamocela tanto, beviamoci sopra e sdraiamoci qui, all'ombra..
136 Partendo per il nostro immaginario viaggio nel passato soffermiamoci sulla fantasia che ci ha spinto a partire, quella di aprire la porta di una casa e di sbirciare all?interno per scoprire quali fossero le condizioni materiali di esistenza delle famiglie europee d?Età moderna. Proviamo a smontarla, ad analizzare su quali presupposti si basa. Chiediamoci quali sono le implicazioni che ha il modo stesso in cui fantastichiamo. Ebbene? Non lo si può negare: tale fantasia dà per scontata la coincidenza di casa e famiglia.
137 Ma che dire di coloro che una casa non l?avevano? Gli homeless non sono certo un?invenzione dei nostri giorni: per secoli un?ingente massa d?uomini «ha vissuto ?senza fissa dimora?, senza ?foco, né loco?»1. Tra di essi possiamo annoverare i «furfanti» e i «galioti» [galeotti] che a Venezia cercano riparo «sotto el portego de San Marco et de Rialto», talvolta senza proprio riuscirci, visto che li si ritrova morti di freddo e di fame2. Oppure la marea dei mendicanti napoletani che di notte si rifugiano dove possono e come possono in miserabilissime stanze a pagamento, in stalle, case diroccate, grotte3. Ma in Età moderna c?è tutto un mondo variegato di senzatetto, vagabondi, accattoni, pezzenti, scansafatiche, delinquenti che tirano a campare di elemosine, di inganni, di frodi, di furti o di violenze4. La piaga del vagabondaggio e della mendicità affligge tutt?Europa, pur con caratteristiche specifiche nei diversi momenti storici e nelle diverse zone5 (Figg. 1, 2, 3, 4).
138 Senza dubbio nella massa stracciata di coloro che vivono senza fissa dimora sono molti quelli che non hanno padre, né madre, né marito, né moglie, né figli, fratelli o parenti. «Pullulano senza famiglia», dice nel 1783 il principe di Strongoli dei mendicanti napoletani cui prima si accennava. In gran parte privi di casa, oltre che di famiglia, pare che a fine secolo siano più di centomila su una popolazione di circa 400.000 persone6.
139 Non è facile tuttavia fissare in cifre la massa mobile e fluttuante dei vagabondi e dei senzatetto, tanto più in una società in cui il numero dei poveri può crescere a dismisura nei momenti di crisi. Il contingente dei bisognosi, infatti, non è rappresentato solo da coloro che non sono in grado di guadagnarsi da vivere perché invalidi, malati, troppo vecchi o ancora bambini, cioè i cosiddetti «poveri strutturali» il cui numero in città come Roma, Firenze, Venezia, Lione, Toledo, Odense, Norwich, Salisbury e molte altre oscilla tra il 4 e l?8% della popolazione. Accanto ad essi c?è la massa di coloro che sono esposti a scivolare sotto il livello di sussistenza alla minima fluttuazione del prezzo del pane, pari a circa un quinto della popolazione urbana. E poi ci sono quelli che ­vedono profilarsi lo spettro della miseria per la perdita del lavoro, per una malattia prolungata o un lutto familiare. Nei momenti di crisi particolarmente acuta il numero dei poveri può insomma raggiungere la metà, talvolta addirittura il 70% delle famiglie ­urbane7.
140 È chiaro che, in un mondo in cui sono così tanti quelli che in modo saltuario o definitivo rischiano di oltrepassare la labile soglia della miseria, solo una parte dei poveri è rappresentata da vagabondi e senzatetto. Ciononostante nei periodi di crisi, di carestia, di guerra, quando la massa dei miserabili aumenta, si ingrossano anche le fila dei senza fissa dimora. Molti sono contadini che, disperati, divorati dalla fame, abbandonano le loro case e si riversano in città in cerca di soccorso, andando così ad ingrandire il flusso di coloro che dalla campagna regolarmente vi arrivano spinti dalla speranza di migliorare la propria sorte, di trovare lavoro e guadagno o di avere, almeno, un po? di assistenza8.
141 Chi vaga in cerca di cibo o per sfuggire agli orrori di una guerra spesso ha perso o abbandonato i familiari. L?essere senza famiglia è anzi uno dei modi in cui si manifesta la sua marginalità, non di rado ? soprattutto nel caso di bambini, anziani e donne ? ne è la causa9: «lui andò poi via per la fame e non si vide mai più», dice di suo marito una vagabonda originaria del contado modenese accusata di meretricio all?inizio del Seicento10. «Li poveri per non vedere li figli morire dalla fame se ne vanno per il mondo malabiando», conferma un?altra fonte proprio a proposito della situazione a Modena, nel 160111. Ma la povertà e l?indigenza creano situazioni simili anche in altri contesti: ci sono uomini che, «stanchi dello sforzo di mantenere una famiglia con un salario a malapena adeguato ad una persona», «raccolgono in un fagotto i pochi vestiti che ancora possiedono e se ne vanno, senza farsi mai più rivedere dalle loro famiglie», denuncia a fine Settecento il curato di Athis, in Francia12. E le strade che la malasorte percorre per colpire le sue vittime sono molteplici, non si riducono a quella della fame. Nel 1744, una ragazza bolognese, Giulia Taruffi, «va raminga di notte per non aver ricovero» in seguito all?incarcerazione di suo padre13. Anche Frances Palmer, inglese, è una vagabon­da: nel 1603 viene arrestata e fustigata per maternità illegittima. Entrambi i suoi due figli, «concepiti e nati nel meretricio», partoriti per strada, muoiono neonati. Se fossero sopravvissuti senza essere abbandonati probabilmente avrebbero contribuito a riprodurre la massa dei vagabondi, come spesso accadeva alla prole delle ragazze come lei, esposte agli abusi sessuali e costrette a prostituirsi per tirare a campare14.
142 Ma per quanto il disgregarsi dei legami familiari possa spesso essere all?origine di una vita di strada, e al contempo miseria e disgrazie non di rado corrodano i legami familiari, anche intere famiglie vagano talvolta senza fissa dimora o trovano ricetto in ricoveri di fortuna. Nell?inverno tra il 1527 e il 1528 la carestia spinge a Venezia una gran massa di contadini dell?estuario veneziano, del Vicentino, del Bresciano: molti di loro chiedono l?elemosina, ché muoiono di fame, intirizziti, con i bambini in braccio15. Il viaggiatore che fosse arrivato ad Amsterdam, verso fine Cinquecento-inizio Seicento, avrebbe visto centinaia di famiglie accampate sotto le arcate che rinforzavano le mura di mattoni della città: una babele in cui, accanto ai miserabili presenti in ogni centro urbano, avevano finito per accalcarsi ebrei profughi dalla Spagna e dal Portogallo, protestanti valloni e fiamminghi fuggiti dalle persecuzioni religiose16. Non sempre insomma chi era senza casa era anche senza famiglia 
143 Come si è visto, Geronima Veralli sollecitava il fratello a dare una ricca dote a Olimpia sottolineando anche l?onore che da ciò sarebbe derivato a lui e a tutta la casa155. Specularmente un uomo poteva misurare la sua posizione sociale anche a partire dal livello della dote che la famiglia della sua futura sposa era disposta a sborsare per realizzare l?unione156. Tutto ciò ci ricorda che la funzione del contributo maschile e femminile al matrimonio non era esclusivamente economica. La casa in cui la nuova coppia avrebbe abitato; i vestiti e i gioielli che avrebbe indossato; i cibi che avrebbe mangiato; i regali che avrebbe fatto e via discorrendo valevano infatti anche come indicatori di status157.
144 In questo senso, quando si sposavano, i mariti dell?élite fioren­tina rinascimentale regalavano alle mogli ricchi gioielli e a volte prendevano addirittura a nolo le gioie di cui le avrebbero ornate per far fare bella figura alle loro donne e, attraverso di esse, per affermare il proprio status158. Nella città toscana in occasione dei matrimoni lo sfarzo era tale che le autorità si videro costrette a introdurre leggi suntuarie, come peraltro avvenne anche altrove159. In alcune ­zone italiane i carri che trasportavano i corredi avevano d?altronde dei sostegni ai quali erano attaccati i vestiti della sposa, in modo che tutti potessero vederli160. A Firenze il contenuto dei cassoni era messo in bella vista durante il corteo nuziale e poi nella casa del marito, durante il banchetto161. Ma la biancheria e gli altri beni della donna venivano esposti in pubblico anche in molti altri luoghi: nella Germania luterana il carro su cui sedeva la sposa girava per la città carico dei regali di nozze e del corredo, in modo che tutti potessero ammirarli162; in alcune zone della Francia, ancora nel nostro secolo, la biancheria del corredo, ­dopo essere stata portata nella stanza da letto degli sposi, veniva esposta in modo che tutti potessero vederla163. Anche persone piuttosto povere ci tenevano a fare la loro figura e non lesinavano, pertanto, gli sforzi in tal senso. «Vorrei piuttosto aver le corna, che gli mancasse la roba sul corredo», dice di sua figlia una povera contadina toscana nel Settecento164.
145 La stessa funzione aveva anche la ricchezza dei banchetti che erano organizzati un po? dappertutto e un po? in tutti i ceti ­sociali in occasione dei matrimoni (Tav. 1): «toltone il tempo di nozze mangiano i villani [male] come porci», sentenziava Girolamo Cirelli alla fine del Seicento165.
146 Invitare amici e parenti al banchetto così come fare e ricevere regali, non aveva tuttavia solo una funzione di festeggiamento o di ostentazione. I matrimoni avviavano circolazioni e scambi di beni che avevano anche una funzione simbolica.
147 L?anello aveva una lunga tradizione. Presso gli antichi romani esso costituiva una garanzia della promessa di matrimonio e in epoca alto-medievale tra i popoli germanici era presente sulla scena della desponsatio, che impegnava seriamente le parti a contrarre matrimonio. Ma dall?XI secolo la Chiesa iniziò a fare dell?anello, che fino ad allora era stato soprattutto un anello di fidanzamento, per così dire, il simbolo centrale del matrimonio legittimo. Come si ricorderà166, la concezione ecclesiastica del matrimonio era fortemente incentrata sullo scambio del consenso tra gli sposi. Non a caso, dunque, la consegna dell?anello slittò dal momento dell?accordo delle famiglie proprio a quello in cui i due nubendi dichiaravano reciprocamente di prendersi come coniuge167.
148 La consegna dell?anello finì così per incarnare la concezione ecclesiastica del «vero» matrimonio in competizione tanto con la tradizione longobarda e germanica, per la quale il momento centrale delle cerimonie nuziali era il corteo con il quale la sposa era portata nella casa del marito168, quanto con le concezioni più popolari che, forse proprio recependo a modo loro la dottrina ecclesiastica del matrimonio consensuale, attribuivano allo scambio di un oggetto qualsiasi, purché in nome di matrimonio, la funzione quasi magica di trasformare un uomo e una donna in marito e moglie. A tale titolo Guillaume Foucher offre così a Marguerite Gueux una pera, che ella mangia; Jean Bertrand dà a Jacquette Gaudouart un bicchiere di stagno, nel 1506; Jean Simon dona a Jeanne Lepage una cintura nel 1530, mentre due anni dopo Pierre Pellart stringe tra le braccia Marguerite vedova Jacomart dicendole, a quanto ella riferisce: «Marguerite, perché tu non abbia paura che io abusi di te metto la mia lingua nella tua bocca, in nome di matrimonio». Casi estremi, questi citati, l?ultimo in particolare. E probabilmente almeno in parte eccentrici già ai tempi in cui avvennero, visto che se ne è conservata memoria tra le carte di tribunali davanti ai quali uno dei due protagonisti di solito trascinava l?altro, che non ammetteva di essersi davvero sposato. Ma attestanti una credenza popolare che attribuiva valore di vincolo allo scambio degli oggetti più svariati o addirittura di effusioni erotiche purché, appunto, a titolo matrimoniale, credenza che, almeno in certe zone della Francia, la Chiesa sradicherà completamen­te solo nel Sei-Settecento. Tali credenze popolari, tuttavia, erano molto meno peregrine di quanto a prima vista si possa supporre. Una tradizione giuridica tardomedievale vedeva infatti nell?offerta di qualche piccolo regalo un elemento da cui era possi­bile dedurre la piena validità del matrimonio dopo che erano stati contratti gli sponsali, e nel bacio ? così come nel «toccamano» e nel­l?inanellamento ? uno dei segni del consenso nuziale169.
149 Quello che a Firenze si chiama «il dì dell?anello» assurgerà insomma a giorno del matrimonio. In generale ciò indica, appunto, il crescente controllo dell?istituzione ecclesiastica sulle pratiche matrimoniali. Ma a Firenze il fatto che il matrimonio nel Quattrocento sia sempre più spesso consumato in tal giorno all?inizio dipende probabilmente dalle imposizioni del Monte delle doti, che decide di pagare i debiti dotali solo dopo la copula, più che dall?influenza della Chiesa170. Bisogna inoltre notare che in ­buona parte d?Europa quello che dovrebbe essere il simbolo dell?unione consensuale di due persone che, almeno rispetto all?atto matrimo­niale, dovrebbero essere in una posizione paritaria, rivela in realtà in sé i limiti che tale concezione soffre nella pratica. L?anello infatti di solito è uno solo, ed è il marito che lo infila alla moglie facendola così sua. Egli si assicura simbolicamente la sua fedeltà ma senza fornirle un pegno simmetrico della propria171.
150 Comunque sia, l?anello finisce per diventare «il solo oggetto che sarà universalmente lecito nel quadro della cerimonia religiosa» del matrimonio172. Ciò non significa che altri oggetti densi di significati simbolici scompaiano completamente dalla scena matrimoniale. Il fuso e la conocchia che spesso troneggiavano tra i beni che la sposa portava con sé nella nuova casa non erano ad esempio solo un attrezzo da lavoro (Fig. 6). Talvolta infiocchettati e decorati, erano anche il simbolo dell?attività di una donna onesta e laboriosa, tanto da rappresentare una sorta di auspicio che ella si rivelasse una buona moglie e una buona madre: nello Yorkshire la nubenda, intenta a filare, veniva portata in giro per il paese su un carro (brideswain) sul quale amici e parenti gettavano monete o caricavano mobili e utensili. Analogamente in alcune zone della Sardegna la sposa veniva portata nella nuova casa seduta su un carro con fuso e conocchia in mano173.
151 Rappresentando il punto di avvio di una nuova entità, i matrimoni sono dunque ricchi di gesti augurali e apotropaici, ridondano di significati simbolici che di fatto coinvolgono anche i beni materiali in cui la nuova unione si incarna o che costituiscono l?orizzonte materiale in cui essa è destinata a vivere, come ci ricordano i riti propiziatori e religiosi di cui era fatto oggetto il letto nuziale (Fig. 9), dei quali abbiamo parlato all?inizio del capitolo
152 «Civilizzati» e «incivili». Nel corso delle sue peregrinazioni in Europa, narrate in un resoconto dato alle stampe nel 1672, il gentiluomo francese Jouvin de Rochefort una sera cenò in una malga del Sudtirolo. Imbarazzatissimi per la presenza di un signore di tanto riguardo, i bovari fecero accomodare l?ospite sulla «più bella delle loro sedie, cioè un catino rovesciato», e apparecchiarono la tavola «su cui non c?erano né tovaglia, né tovaglioli, né coltelli, né forchette, né cucchiai». In una scodella di legno vennero servite delle rape fatte cuocere «in una pignatta con della farina, del sale, del burro e del latte», in un?altra scodella sei uova, mezzo formaggio e qualche pezzo di pane. Per l?occasione venne portato un po? di «vino svanito» (di solito i bovari bevevano solo latte). La famiglia si accomodò per terra intorno alla tavola. Il padre allungò all?ospite il piatto con le uova: questi ne prese una e distribuì le altre ai commensali. Poi il padre gli porse quello con le rape: vi «misi subito la mano» ? narra il gentiluomo ? «il resto della famigliola fece lo stesso, nessuno osò prenderne ancora se non dopo che ne ebbi mangiate altre». Gli fu portata una tazza di legno dove gli fu servito il vino: «bevvi alla salute di tutta la compagnia, che non osò fare lo stesso». Qualcuno si alzò per bere del latte e gli portò un po? di formaggio e un piatto «di piccoli frutti, assai simili all?uva nell?aspetto e nel gusto, che crescono nel bosco e sulle montagne» (dei mirtilli?)1.
153 Un interno assai misero, quello dei bovari sudtirolesi. Ma simile ad altri interni di campagna dell?epoca, ad esempio quelli descritti nel 1694 dal riminese Girolamo Cirelli, pur dotati di qualche comodità in più, come una sorta di tovaglia, presumibilmente delle sedie e forse anche maggior abbondanza di cibo. Scrive infatti Cirelli: «[I villani] non adoprano tovaglia, ma solo un mantile, che altro non è che un pezzo di tela con l?estremità di color torchino, quale mai non cuopre tutta la tavola. Non anno [sic] tovaglioli, ma si nettano la bocca con le maniche del giupone, o della camiscia. Mangiano senza forchetta, e cuchiaro, e invece del quale adoprano una fetta di pane sopra la stessa tavola, dove mangiano tengono le pignatte ancor lorde di cenere, ed anche il caldaro. Tutto il pane tengono in massa in mezzo alla tavola [...] Nel piatto della minestra tengono ancora la carne, quale spezzano con le mani [...] Pongono similmente il vino in mezzo della tavola, bevendo tutti senza distinzione allo stesso boccale»2. «O tondo o tovagliol non aspettare / ché qua non usan queste bagatelle [...] Non s?ha fastidio a domandar da bere: / in mezzo sta il boccal e la scodella: / con questa beve il chierico e il messere / che di bicchier in su non si favella», aveva scritto un secolo prima l?anonimo autore di una sorta di inchiesta in versi sulle condizioni di vita dei montanari del Frignano, una zona appenninica dell?Emilia3.
154 Già nel mondo antico si consigliava di usare delle tovaglie per evitare che le pentole lasciassero la loro impronta sul tavolo. Allora la raccomandazione nasceva da una concezione magica della realtà: poiché si riteneva che tra la pentola e la sua impronta, così come in altri casi analoghi, ci fosse un legame di simpatia e l?una appartenesse all?altra, si pensava che agire sull?una fosse come agire sull?altra. Si credeva dunque che fosse possibile fare magie che avevano come oggetto la pentola agendo sulla traccia di cenere da essa lasciata. Per non correre il rischio che qualcuno ne approfittasse per fare qualche maleficio bisognava pertanto evitare che essa lasciasse tracce sul tavolo. La tovaglia serviva a tale scopo4.
155 Nonostante dietro l?uso della tovaglia si celassero queste antiche credenze, il suo impiego in Età moderna non era universale. Nel capitolo precedente, d?altronde, abbiamo visto che anche avere tavoli, sedie, vasellame e utensili da cucina non era sempre ovvio. Soffermiamoci dunque ora sul significato culturale e sociale di tale diffusione non uniforme. Esso emerge in modo particolarmente chiaro nella descrizione di Cirelli, nella quale la povertà della mensa, la scarsità di vasellame e posate appaiono come qualcosa di più che non un mero segno di miseria materiale: nella misura in cui esse si intrecciano in modo inestricabile con la mancanza di educazione dei contadini, appaiono infatti una manifestazione di quella che agli occhi di Cirelli e di buona parte dei cittadini e delle classi sociali medie e alte appare come l?animalità, la belluinità dei villani. La loro ignoranza delle buone maniere testimonia a contrario il profondo valore di distinzione sociale del saper stare a tavola «come si deve». L?esser «villano» si tinge di connotazioni negative in contrapposizione all?«urbanità» delle borghesie cittadine e alla «cortesia» dei ceti aristocratici5. «A tavula e tavulinu / si canusci u? cittadinu», recita un proverbio rilevato in Calabria, dove peraltro ancora nel nostro secolo molti interni domestici contadini risultavano improntati ad un?estrema povertà. «Allora non avevamo tavola, mettevamo tutto su un treppiede, tutti intorno a ruota; eravamo noi otto persone, mettevamo il treppiede in mezzo, aggiustavamo il focolare e là dovevamo mangiare», testimonia un?anziana donna intervistata nei primi anni Settanta, le cui parole sono peraltro in buona parte confermate da quelle di altri intervistati6.
156 Certo il vocabolario delle buone maniere non è lo stesso dappertutto, né esprime sempre gli stessi contenuti dal punto di vista sociale. Le buone maniere, e tra queste quelle relative al comportamento a tavola, giocano tuttavia un ruolo importante nel definirsi del processo di civilizzazione, cioè nella creazione di un insieme coerente di caratteristiche e comportamenti ritenuti positivi, la civiltà appunto. Tale processo accomuna tutta l?Europa, seppur con diverse declinazioni nei differenti contesti7.
157 Verso la metà del Cinquecento, secondo il francese Calviac, «i tedeschi mangiano con la bocca chiusa e trovano disgustoso fare diversamente. I francesi, al contrario, aprono a mezzo la bocca e trovano poco elegante la maniera usata dai tedeschi. Gli italiani masticano con minor vigore, i francesi più robustamente, e quindi trovano troppo delicata e artificiosa la maniera degli italiani». Inoltre, «gli italiani in generale preferiscono avere un coltello per ciascuno. I tedeschi, poi, lo considerano tanto importante che è per loro motivo di grande fastidio che il loro coltello venga preso o richiesto da altri. I francesi, al contrario, in un?intera tavolata di persone si servono di due o tre coltelli senza che il chiederli o prenderli rappresenti un problema, e così il porgerli, quando siano richiesti». L?autore si sofferma anche sul diverso uso di cucchiaio e forchetta nelle tre nazioni: i tedeschi a suo avviso tendono a privilegiare il cucchiaio, gli italiani la forchetta, i francesi li usano entrambi a seconda di come risulta loro più comodo8.
158 Soffermiamoci brevemente anche noi sulla storia delle posate, elemento importante nella trasformazione del rapporto degli occidentali con il cibo e dunque anche rispetto ai mutamenti delle capacità di controllo degli istinti, delle pulsioni, del corpo e della gestualità9. «La fame è fame, ma la fame placata con carne cotta mangiata con forchette e coltelli è una fame diversa da quella placata trangugiando carne cruda con l?aiuto di mani, unghie e denti»10, anche se poi non è detto, naturalmente, che chi mangia con le mani sia per forza privo di capacità di autocontrollo, tanto in generale, quanto più specificamente in rapporto al mangiare. Chiunque mangi con le posate tuttavia, non può avventarsi sul cibo come un animale. Deve imparare a maneggiare degli strumenti, a coordinare le mani e la bocca, ad aspettare di aver predisposto un boccone prima di ingollarlo... Almeno nel campo dell?alimentazione deve insomma acquisire quel minimo di autocontrollo che chi assume il cibo con le mani può avere ma può anche non ­avere.
159 Posate, tovaglie, tovaglioli, piatti e bicchieri. Il cucchiaio, che deriva il suo nome da cochlea, cioè conchiglia, è in uso già presso gli antichi Egizi. Roma ne conosce di due tipi, realizzati in osso, bronzo o argento: uno, definito appunto cochlear o cochleare, viene usato soprattutto per mangiare molluschi, uova o per somministrare medicinali; l?altro, detto ligula, piatto, a forma di foglia d?alloro, è forse impiegato soprattutto per infilzare i cibi, tanto che di recente è stato considerato antenato della forchetta più che del cucchiaio. Durante il Medioevo pare che il cucchiaio, in genere in legno, più raramente in oro e argento, sia tutto sommato di impiego abbastanza raro. Verso la fine del periodo ha tuttavia larga diffusione e se ne producono in materiali ricchi e preziosi (avorio, cristallo, oro e argento). La tipologia si diversifica, soprattutto in Inghilterra, dove spesso il cucchiaio nelle grandi famiglie ha inciso lo stemma del casato11.
160 Anche il coltello ha una lunga storia. Lame più o meno rudimentali risalgono, ovviamente, alla notte dei tempi. Ma il coltello piccolo per uso in senso lato «domestico», differenziato dal coltello per altri impieghi, pare sia stato portato dai «barbari» invasori. Mano a mano che la società diviene meno bellicosa, l?uso del coltello, la cui vista può suscitare paura e ricordare situazioni di violenza, a tavola verrà limitato. Non si arriverà ad una situazione analoga a quella vigente in Cina, dove esso è bandito dalla mensa. Ma durante il Rinascimento l?affinarsi delle buone maniere comporta la nascita del coltello da tavola dalla punta arrotondata. Esso si diffonde parallelamente all?uso di tagliare le carni sul piatto. Ma la sua crescente fortuna è connessa anche al declino dell?abitudine di infilzare i cibi con la punta della lama per prenderli e portarli alla bocca. Tale declino è in buona parte legato all?imporsi della forchetta12.
161 Gli antichi Romani impiegavano forchettoni e forse anche una sorta di forchetta, ma soprattutto per maneggiare le vivande in cucina. Inventate forse a Bisanzio, le forchette vere e proprie, quelle usate per portare il cibo alla bocca, sono presenti in area bizantina e in Italia già nel X-XI secolo. Il banchetto per le nozze tra la principessa greca Argillo e il figlio del doge di Venezia, celebrate nel 955, è forse la prima occasione in cui su una tavola dell?Europa occidentale compare tale posata. Mentre tutti mangiano con le mani la raffinata principessa usa infatti una forchetta. Associate al mondo bizantino, nella situazione di tensione creatasi con lo scisma tra la Chiesa ortodossa e la Chiesa di Roma (1054) le forchette verranno presentate dal clero cattolico come simbolo del demonio e il loro uso sarà bollato come peccato. E questo stigma peserà per secoli: ancora nel Seicento, quando in Italia il loro uso è ormai frequente, Monteverdi ogni volta che per buona educazione è costretto a impiegarle fa dire tre messe per espiare il peccato commesso13.
162 In Italia è dal Tre-Quattrocento che le forchette cominciano a comparire in modo un po? meno sporadico14. Così a Napoli già ai tempi di Roberto d?Angiò (1309-1343) c?è chi consiglia di mangiare la pasta, calda e scivolosa, infilzandola con una sorta di punteruolo di legno, antenato della forchetta di metallo. Certo allora si trattava di un cibo costoso e di uno strumento il cui uso era limitato agli ambienti di corte. Ma anche prima di divenire un alimento popolare, la pasta ? e con essa la forchetta ? conosceranno un certo successo negli ambienti borghesi15.
163 È dall?Italia pertanto che la forchetta passa negli altri paesi europei nel corso dell?Età moderna. Ma la sua diffusione è piuttosto lenta. In Francia è presente già nel Cinquecento, come testimonia lo stesso Calviac. A corte viene forse introdotta da Caterina de? Medici, che nel 1533 sposa Enrico II. Suo figlio Enrico III cercherà di renderne obbligatorio l?impiego a suon di ordini e regolamenti. Essi avranno però anche l?effetto di suscitare larga derisione contro i raffinati italianofili che non toccano il cibo con le mani. L?avversione della nobiltà francese per la forchetta verrà definitivamente meno solo nella seconda metà del Seicento. Ma ancora verso il 1730 essa non è d?uso comune neppure ai vertici della società e addirittura a corte c?è chi mette le mani nel piatto16. In Inghilterra Giacomo I ne fa uso, ma alla sua morte (1625) non avrà quasi imitatori. Un secolo dopo (1725) solo il 10% delle famiglie inglesi risulterà in possesso di forchette e coltelli da tavola17. E in Germania la penetrazione sarà, se possibile, ancor più lenta: le forchette cominciano timidamente a far capolino sulle tavole dei più raffinati solo a fine Seicento. Un secolo più tardi, tuttavia, nei ceti medio-alti di tutt?Europa il loro uso è ormai consolidato. In seguito esso si impone anche negli altri ceti sociali18. Ma quando la forchetta è ormai presente su ogni tavola, sono passati più o meno mille anni da quella festa di nozze durante la quale la raffinata Argillo ne aveva forse per la prima volta fatto sfoggio nell?Europa occidentale.
164 Ben più rapida, almeno tra i ceti elevati, è stata la diffusione del piatto, che dal Cinquecento sostituisce i taglieri lignei in uso nel Medioevo. Per quanto fossero noti già in epoca medievale è soprattutto allora, infatti, che accanto a semplici piatti di legno si moltiplicano quelli di peltro, di stagno o d?argento. Lo sfoggio che attraverso i piatti può essere fatto in occasione dei banchetti viene talvolta combattuto anche attraverso leggi suntuarie: così Pio V impone di sostituire i piatti d?argento con piatti di terracotta e maiolica (in Spagna e in Italia la produzione di maiolica aveva cominciato a svilupparsi già in epoca medievale)19.
165 «Un tempo la minestra la si mangiava dal piatto comune, senza cerimonie» e «nello spezzatino si intingevano dita e pane», recitano i versi di una canzone francese del Seicento. «Oggi ciascuno mangia la zuppa dal suo piatto e bisogna servirsi con garbo di cucchiaio e forchetta»20. A partire dal XVI secolo, nella buona società si diffonde in effetti la tendenza a fornire a ogni convitato un piatto, un bicchiere, un cucchiaio, un coltello (più lentamente, come detto, una forchetta), uno o più tovaglioli, non di rado cambiati più volte dalla servitù durante i banchetti, così come si faceva con le tovaglie. Si abbandona poi l?uso di passare al vicino questo o quell?utensile. Solo le posate di servizio restano comuni. Ma portarle alla bocca diviene segno di maleducazione e inciviltà21. Insieme alle sedie, anche piatti, bicchieri e posate individuali, isolando ogni commensale dai suoi vicini, contribuiscono pertanto a por fine a quella che un autore ha definito come «promiscuità conviviale»22.
166 Non dappertutto, tuttavia, le trasformazioni sono univoche e lineari. Se la parola italiana «posate» viene da «posare» e fa dunque riferimento al fatto che si tratta di oggetti messi sulla tavola23, nell?area tedesca il termine corrispondente Besteck in origine designava il fodero del coltello che ciascuno portava alla cintura. In seguito in tale fodero si cominciarono a portare anche cucchiai e poi forchette: si trattava dunque, a quanto pare, di una dotazione prevalentemente maschile. E rigorosamente individuale (si ricordi il giudizio di Calviac, secondo il quale i tedeschi non amavano prestare il proprio coltello). Solo col tempo si sarebbe realizzato il passaggio a posate disposte sulla tavola che ciascuno usa individualmente ma che non sono sue proprie24.
167 Ma neppure in questo caso si sarebbe arrivati immediatamente a situazioni simili a quella attuale. Nei villaggi tedeschi, infatti, se in Età moderna tutti avevano almeno un cucchiaio di legno, anche le famiglie che conoscevano il lusso delle posate possedevano spesso solo un coltello da tavola e una forchetta. Si trattava, insomma, di posate per così dire al singolare, il cui uso era riservato al padre oppure alla madre di famiglia. Nel villaggio svevo di Kirchentellinsfurt solo negli anni Sessanta dell?Ottocento sarebbe divenuto usuale, tra i ceti medio-alti, possedere più posate25. Anche in Italia ancora in tempi recenti l?uso della forchetta poteva disegnare, a tavola, precise gerarchie: noi donne «mangiavamo tutto con le mani. Solo gli uomini avevano la forchetta», racconta Genoveffa, nata nel 1906 nel Trevigiano, figlia di un muratore e moglie di un contadino proprietario26.
168 Tovaglie da un lato e, dall?altro, tovaglioli, piatti e posate individuali sono insomma divenuti di uso davvero pressoché universale, almeno nel mondo occidentale, solo di recente27. «Quando mangiavamo la minestra eravamo tutti insieme, ma dei bicchieri ce n?era tre o quattro e dicevamo: ?vuota te che adesso bevo io?», ricorda una donna di nome Teresa nata nel 1898 a Mercatale, in provincia di Arezzo28. E in Calabria ancora qualche decennio fa c?erano case in cui tutti bevevano dallo stesso bicchiere o, più spesso, dalla stessa brocca, e si pulivano con un?unica salvietta29. Testimonianze relative agli anni Cinquanta del nostro secolo ci riferiscono di famiglie di quelle stesse zone in cui aveva viaggiato Jouvin de Rochefort riunite intorno al desco a mangiare mosa fatta di latte, burro e farina da un unico recipiente posto in mezzo alla tavola, ogni membro dotato solo di un cucchiaio personale (siamo in un?area tedesca) destinato ? una volta finito il pasto ? a venir pulito sommariamente, magari con un lembo del grembiule oppure sul retro dei calzoni o della gonna, e a venir poi appeso alla parete egli ­inventari solo del 3,5% delle nobili, nell?1,6% di quelli delle domestiche e delle mogli e figlie di funzionari, in nessuno di quelli delle salariate. Solo artigiane e bottegaie ne hanno un po? di più (12%). Di fatto sono considerate un indumento per cacciatrici, attrici e prostitu­te56. A fine secolo risultano più diffuse, ma ancora piuttosto rare (sono presenti nel 7,2% degli inventari di aristocratiche, nel 6,6% di quelli delle mogli e figlie di funzionari, nel 2,6% di quelli di domestiche, ma risultano assenti nel resto della popolazione).
169 Il capo principale di biancheria non sono allora le mutande ma, come già si sarà intuito, la camicia. Indumento antico, essa si diffonde nelle campagne italiane con una certa ampiezza solo nel Quattrocento, per quanto sia presente già nel Due-Trecento, e costituisca anzi talvolta l?unico capo di abbigliamento posseduto. Già nel Cinquecento, secondo Benedetto Varchi, i contadini toscani la cambiano una volta alla settimana, la domenica. Spesso però non è un indumento portato sotto altri: soprattutto in estate i contadini indossano solo cappello di paglia e camicia, rappresentata da un camicione senza colletto, con uno spacco dietro e due sui fianchi, lungo almeno fino a metà coscia58.
170 A quest?epoca nelle campagne francesi la camicia è ancora un capo molto raro59. Negli ambienti di corte è al contrario molto diffusa e pare che la si cambi quasi tutti i giorni60. In altri, invece, i ritmi sono molto più rilassati, ma si nota una tendenza all?accelerazione: nelle istituzioni educative a fine Cinquecento si raccomanda di cambiarla una volta al mese, un secolo più tardi in molti collegi si arriva a cambi bisettimanali61. In quest?ottica, non stupisce più di tanto che nei guardaroba dei domestici parigini, il cui stile di vita è influenzato da quello dei ceti presso cui lavorano, le camicie abbondino: tra il 1700 e il 1715, stando agli inventari, ne possiede almeno una l?88% delle serve, che spesso ne hanno a dozzine. I maschi ne hanno in media una decina a testa, ben 25 tra il 1775 e il 1790. Ma non tutti sono così ben forniti. Nella stessa Parigi, considerata la città europea in cui la biancheria è più abbondante, i guardaroba dei salariati sono meno provvisti, tanto che d?estate, la domenica, lungo la Senna, sono molti coloro che lavano la propria unica camicia. Alla fine del secolo dei Lumi lavare la camicia una volta ogni quindici giorni o una volta alla settimana sembra infatti un?abitudine anche tra chi ne possiede una sola, almeno nella bella stagione62.
171 Nelle campagne sarde, in segno di lutto non ci si cambia la camicia per un anno: ciò ? nota un autore ? testimonia che la camicia è conosciuta e che non cambiarla è un sacrificio63. Ma testimonia anche che portare lo stesso indumento per tutto l?anno è una pratica nonostante tutto accettabile, tanto da parte di chi ha perso un parente, quanto da parte di chi gli sta vicino e deve tollerarne gli odori. Nello stesso periodo in Inghilterra è addirittura usuale, all?inizio dell?inverno, spalmare i bambini di grasso e cucir loro addosso i vestiti, in modo che restino sempre ben coperti e non prendano freddo
172 Trovare, selezionare e usare l'informazione
173 Alla ricerca dell'informazione desiderata
174 Girovagare nella rete può essere divertente, è il passatempo preferito di molti utenti Internet ed è un ottimo diversivo sul lavoro (anzi, sembra essere responsabile di significativi cali di produttività in certe aziende). È provato che il traffico nella rete aumenta notevolmente verso l'ora di pranzo, con conseguenti rallentamenti dei tempi di trasferimento dei file, proprio perché molti approfittano della pausa per divertirsi un po'.
175 La storia della scienza è costellata da scoperte magnifiche avvenute per caso e così anche molte perle di Internet possono essere trovate fortuitamente. Ma è chiaro che un uso professionale di Internet presuppone di non affidarsi alla fortuna, ma sapere cosa cercare, dove cercare, come cercare.
176 I calcolatori che memorizzano documenti multimediali e li rendono accessibili via Internet diventano sempre più numerosi e di difficile censimento. Le differenti stime realizzate da vari enti e organizzazioni, tra cui istituti di ricerca e aziende che operano nell'ambito delle ricerche di mercato, forniscono naturalmente cifre discordanti tra loro. Fotografare in un volume una realtà come quella di Internet, così complessa da stimare e soggetta a un'evoluzione fortemente non lineare, non è certamente opportuno e comporta il rischio di fornire dati approssimativi e obsoleti.
177 Gli unici dati certi sono la tendenza alla crescita molto veloce e l'ordine di grandezza del numero dei siti Web: alcuni milioni nel mondo.
178 Tutte queste risorse possono essere classificate secondo vari punti di vista: il più immediato, ma anche quello meno significativo, è quello geografico. Ma un professionista che usi Internet sarà interessato soprattutto a ricercare per argomenti e non in base alla geografia. Potrà quindi orientarsi in un elenco di discipline ordinate secondo una certa gerarchia.
179 Da questo punto di vista, il sito generalista Yahoo! (www. yahoo.com), di cui ora esiste anche una versione italiana (www. yahoo.it) è l'ideale. Le risorse sono classificate per argomenti in sezioni e rubriche a differenti livelli. All'indirizzo www.yahoo.it/Medicina_e_salute si possono vedere le rubriche in cui è suddivisa la sezione "Medicina e Salute" nel sito italiano; al www.yahoo.it/Medicina_e_salute/Medicina sono riportate le varie discipline mediche e al www.yahoo.it/Medicina_e_salute/Ortopedia/Organizzazioni un esempio di pagina da cui accedere direttamente ai siti.
180 Il lavoro di catalogazione e classificazione è svolto manualmente da alcuni consulenti che ricercano autonomamente i siti Web e raccolgono le segnalazioni spontanee degli autori delle risorse o dei semplici utenti. Il sito statunitense è ricchissimo di informazione, ma quello italiano ? limitandosi alle risorse nazionali ? può essere comunque utile a chi voglia concentrare localmente la propria ricerca.
181 Un ottimo sito, dedicato esclusivamente al mondo sanitario, è quello della Medical Matrix (www.medmatrix.org). È possibile lanciare una ricerca per parole chiave oppure esplorare i siti categorizzati in base alle malattie o alle specialità (vedi riquadro sottostante). Inoltre, è un digest di informazioni preziosissime sulle liste di discussione, sui temi della pratica clinica, sulla letteratura corrente, sulle banche dati, sulla tele-medicina, sulla didattica, sul management sanitario, sui progetti in corso e sull'industria biomedica.
182 Questo capitolo si propone di fornire un rapido quadro d?insieme delle funzionalità di Internet, ma per gli utenti alle prime armi è comunque consigliabile affiancare alla lettura di questo volume (specificamente rivolto all?esame delle risorse e delle potenzialità della rete in ambito medico) quella di un buon manuale introduttivo generale.
183 Uno specchio della popolarità di Internet è senz?altro la fioritura di libri e riviste sull?argomento. Il fenomeno si è rapidamente esteso dagli Stati Uniti all?Europa. Non è raro vedere le vetrine delle librerie, anche quelle non specializzate, affollate da volumi sulla rete delle reti, volumi che quasi monopolizzano gli scaffali dedicati all?informatica.
184 Tra tutti questi, vale la pena segnalare il classico testo di Gilster e soprattutto Internet ?98, di Calvo, Ciotti, Roncaglia e Zela.
185 Le origini di Internet
186 Come molte delle tecnologie ormai disponibili su larga scala, anche Internet ha un?origine almeno in parte militare. Fu, infatti, il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti che negli anni Settanta finanziò l?interconnessione sperimentale di alcuni calcolatori sparsi per il paese.
187 L?obiettivo era non solo quello tradizionale di replicare le informazioni vitali, ma anche di far funzionare contemporaneamente i vari calcolatori e far loro condividere in tempo reale i dati ricavati dai vari centri radar e dalle varie postazioni di ascolto. L?intelligenza veniva così a essere distribuita, un ipotetico attacco nucleare avrebbe potuto danneggiare solo una parte di questa rete, ma il sistema nel suo complesso si presentava praticamente invulnerabile.
188 Come spesso accade, le ricadute della ricerca militare furono sfruttate dal mondo civile, in primo luogo da un ente governativo. La National Science Foundation (NSF), infatti, creò cinque centri di supercalcolo, e la rete militare ? la ARPAnet ? fu messa a disposizione della comunità scientifica che voleva accedere ai supercalcolatori. Successivamente la NSF mise in piedi una rete tutta sua ? la NSFnet ? che sfruttava un protocollo di trasferimento dati destinato a diventare popolare: il TCP/IP (Transfer Control Protocol/Internet Protocol). Definire un protocollo significa sostanzialmente precisare tutte le convenzioni necessarie a permettere lo scambio di dati tra differenti elaboratori. L?idea di base di questo protocollo era dividere ogni messaggio in "pacchetti" di bit, con il protocollo TCP ad assicurarsi che i vari frammenti fossero ricomposti nell?ordine corretto. L?Internet Protocol è la lingua in cui le informazioni che riguardano un singolo pacchetto sono scritte. In IP sono quindi scritti quei frammenti del messaggio che parlano del messaggio stesso.
189 Anche in Europa i centri di calcolo sentirono l?esigenza di collegarsi tra loro, dando vita a EARN (European Academy Research Network). Altre iniziative nazionali e trans-nazionali si affermarono, con decine e decine di reti indipendenti e isolate l?una con l?altra, ognuna con il proprio protocollo di comunicazione incompatibile con quello delle altre. Per comunicare con utenti di un?altra rete era necessario utilizzare appositi calcolatori che fungevano da tramite traducendo un protocollo in un altro.
190 Le organizzazioni di standardizzazione internazionali cominciarono ad attivarsi per rilasciare un protocollo standard di comunicazione, valido in tutto il mondo. Mentre i lavori proseguono, l?Internet Protocol è diventato lo standard di fatto. Non privo di difetti, ma se non altro un?interlingua diffusa ormai in tutto il mondo.
191 Internet non esiste come realtà singola. Esistono tante reti diverse nel mondo che hanno deciso di condividere lo stesso protocollo. Internet è questo fenomeno: è l?interconnessione e l?interoperabilità tra le reti locali ? diverse decine di migliaia ? che rende possibile il dialogo tra milioni e milioni di utenti.
192 Non si tratta di un?infrastruttura imposta dall?alto, ma di un movimento di integrazione che nasce dal basso. Come scrive Herz: "È semplicemente la coscienza collettiva di tutti quelli che ne fanno parte" (J.C. Herz, I surfisti di Internet, Feltrinelli, Milano 1995).
193 Tutti questi calcolatori in rete, o meglio, tutti gli utenti di questi calcolatori possono interconnettersi con varie finalità utilizzando applicazioni appropriate. Le applicazioni di maggior interesse per i medici sono: la posta elettronica, per spedire messaggi a uno o più destinatari, le liste di discussione e i newsgroup, diversi nella realizzazione, ma simili nell?obiettivo (creare un forum virtuale di discussione) e il World Wide Web.
194 La posta elettronica
195 I primi esperimenti di posta elettronica risalgono agli anni Settanta e precedono quindi lo sviluppo stesso di Internet. L?esistenza di una rete di calcolatori stimolò, infatti, la ricerca di nuove applicazioni e si pensò allora di utilizzare il canale di trasmissione apertosi anche per spedire e ricevere messaggi personali.
196 A quei tempi la comunità in rete era composta da poche migliaia di utenti, quasi tutti del mondo della ricerca, per lo più fisici. La posta elettronica era per loro semplicemente un?opzione in più rispetto alle limitate funzionalità che la rete offriva. Non c?erano applicazioni appositamente sviluppate e si utilizzavano prevalentemente apposite istruzioni del sistema operativo Unix. Gli utenti erano scienziati abituati a interagire con sistemi complessi e non era ancora sentita la necessità di realizzare le interfacce amichevoli che oggi sono disponibili su tutti i personal computer.
197 Nell?esempio in figura 1 viene riportata una sessione di lavoro realmente eseguita per spedire un messaggio utilizzando questo tipo di strumenti, dall?impiego non proprio intuitivo. Come si vede, dopo il "prompt" (in questo caso il dollaro, il simbolo che Unix, il sistema operativo del calcolatore, presenta all?utente e dopo il quale si aspetta che venga inserita un?istruzione) è stato dato il comando "mail" seguito dall?indirizzo del destinatario. Un punto isolato, unico carattere in tutta una riga, è stato impiegato per segnalare alla macchina che abbiamo finito di scrivere e che la lettera può partire.
198 Come si può notare, si tratta di un?interfaccia molto essenziale e con capacità di editing nulle. Fortunatamente, in alternativa esistono ormai programmi per gestire la posta elettronica decisamente più semplici da utilizzare, come il popolare Eudora, adatto sia all?ambiente Windows sia a quello Macintosh (fig. 2).
199 La diffusione di Internet non ha modificato le funzionalità della posta elettronica, ma ha consentito un?efficace integrazione tra le varie reti sparse per il mondo, in modo tale che quasi ogni calcolatore del mondo sia raggiungibile, conoscendone l?indirizzo.
200 Supponiamo di dover spedire un messaggio all?utente il cui indirizzo Internet è:
201 La parte a destra del simbolo "@" serve a individuare il calcolatore che riceverà il messaggio, mentre a sinistra troviamo identificato il destinatario, uno dei tanti utenti dello stesso calcolatore.
202 Come si può notare, la parte destra dell?indirizzo è composta da vari elementi ? detti "dominii" ? separati tra loro da puntini. Il più esterno di questi identifica la nazione di destinazione: è la Internet Society che assegna delle sigle standard a ogni Stato raggiunto dalla rete.
203 Fanno eccezione gli Stati Uniti, dove la sigla "us" è usata molto raramente (come in "bruce@well.sf.ca.us" che, letto da destra verso sinistra ci dà: Stati Uniti, California, San Francisco, la rete del bulletin board "Well"). Nella stragrande maggioranza dei casi gli indirizzi USA hanno come dominio più esterno un identificatore quale "edu" per le reti universitarie, "com" per quelle commerciali, "gov" per quelle governative e così via. In fondo, come inventori di questo servizio, gli americani si avvalgono della stessa prerogativa delle poste britanniche, prime nel mondo a introdurre i francobolli e uniche a non scriverci sopra il nome della nazione.
204 Viene spontaneo chiedersi come faccia il calcolatore, una volta in possesso dell?indirizzo del destinatario, a recapitargli il messaggio.
205 Ovviamente la risposta al quesito non è elementare ed esulerebbe dagli scopi di questo libro occuparsene esaurientemente. Però è possibile dare un?idea del funzionamento della posta senza entrare in dettagli tecnici.
206 Una volta scritto un messaggio diciamo al calcolatore di inviarlo. A questo punto è come averlo impostato in una buca delle lettere, ce ne disinteressiamo e lasciamo che siano le poste a mandarlo avanti. Quello che invece succede è che appositi calcolatori disseminati lungo la rete ? detti routers ? smistano i messaggi (che poi non viaggiano mai tutti interi, ma divisi in "pacchetti") e se li trasmettono l?uno verso l?altro. Ogni router è collegato ad altri router ed è in grado, leggendo un indirizzo, di scegliere a quale di questi passare il messaggio, il ricevente farà la stessa cosa e il processo si ripeterà finché la lettera elettronica non sarà giunta a destinazione.
207 L?idea di frammentare il messaggio in pacchetti aumenta l?affidabilità della posta elettronica. La cosa curiosa, e che può lasciare perplessi a prima vista, è che non tutti i pacchetti spediti seguono sempre la stessa strada. In effetti questo serve a fare aumentare le probabilità che il messaggio completo giunga a destinazione. Infatti, i pacchetti che arrivano e non hanno trovato ostacoli lungo il cammino (perché su milioni di calcolatori, ce ne può sempre essere qualcuno inattivo) si ricompongono all?arrivo e il sistema che li riceve fa l?appello per cercare i mancanti. Tutto questo è reso possibile dal protocollo di Internet e dal fatto che ogni pacchetto ha un?intestazione che riporta notizie su di lui: da dove viene, dove è diretto, che strada ha fatto, quanti sono i suoi "fratelli" e che numero è della "famiglia". In questo modo il sistema, sempre in maniera invisibile all?utente, può istruire il calcolatore mittente e farsi mandare i pacchetti mancanti lungo il percorso già seguito con successo dagli altri.
208 Molti utenti comunque non si pongono il problema di sapere come funziona la posta elettronica, ma la usano e continuano a usarla sempre più spesso. Questo, al di là del fattore moda, che pure gioca un ruolo non secondario, è un chiaro segno che il servizio offerto è effettivamente utile e può semplificare notevolmente il lavoro.
209 Come una segreteria telefonica, la posta elettronica memorizza tutti i messaggi ricevuti in assenza del destinatario o se questi non vuole essere disturbato. Per chi spedisce è molto più economica di un telegramma, di una teleselezione o di un fax, ed è anche possibile inviare ? con un?unica operazione ? la stessa lettera a più persone contemporaneamente. Perciò trenta lettere di invito a una riunione, non si tramuteranno in trenta fotocopie, trenta buste, trenta francobolli e neanche in trenta fax. Saranno unicamente trenta indirizzi in testa a un solo messaggio spedito una volta per tutte.
210 Il fax è senz?altro l?applicazione che può fare più concorrenza alla posta elettronica. Molti utenti ne percepiscono il vantaggio immediato e si mostrano riluttanti ad abbandonarlo. Certamente il fax ha dei vantaggi innegabili per chi lo riceve: arriva già pronto e stampato su carta e si può leggere immediatamente. Inoltre è multimediale, potendo integrare testo e immagine. " una tecnologia economica, semplice da installare e di utilizzo elementare.
211 Quali sono però gli svantaggi rispetto alla posta elettronica? Innanzi tutto il fax non è privato: chiunque passi nei pressi della macchina che lo riceve, volendo può leggere informazioni che non lo riguardano. Inoltre, il fax viaggia sulle normali linee telefoniche: due o più fax non possono arrivare contemporaneamente, e allora gli altri utenti troveranno occupato e saranno costretti a ritentare l?invio. Soprattutto per chi spedisce messaggi ? anzi sarebbe meglio dire quando si spediscono messaggi, dato che normalmente un soggetto scambia informazioni sia inviandole, sia ricevendole ? il fax è decisamente meno conveniente della posta elettronica.
212 E un altro enorme vantaggio della posta elettronica, che potrà apprezzare chi si sposta molto per lavoro, anche solo nella stessa città, è la possibilità di essere consultata ovunque ci sia accesso alla rete. Se un congresso scientifico, per esempio, mette alcune postazioni Internet a disposizione dei partecipanti, questi potranno controllare la propria posta, invece di cercare una segretaria e farsi leggere eventuali fax. Per questioni che non siano di estrema urgenza, la posta elettronica non è invadente come il telefonino, si consulta solo se si vuole.
213 E, infine, un ultimo aspetto della tecnologia legata alle e-mail: i cosiddetti attachments, ovvero documenti che memorizzano testi ricchi di formattazione (neretto, corsivo, paragrafi), immagini e meno spesso suoni e brevi filmati. Questi allegati vengono codificati in maniera particolare, spediti insieme al messaggio, ricevuti e quindi decodificati dal ricevente che può a sua volta, volendo, modificarli direttamente. Per cui, se, per esempio, è necessario inviare informazione visuale, non è più indispensabile ricorrere al fax.
214 La crescente diffusione della posta elettronica negli Stati Uniti ha spinto l?Associazione americana di informatica medica (AMIA) a pubblicare delle linee guida per l?utilizzo clinico dell?e-mail tra medici e pazienti.
215 In effetti, le cifre sembrano confermare l?urgenza di una regolamentazione di un fenomeno sempre più di massa: uno studio della Forrester prevede 100 milioni di utenti on-line entro il 2000 (lo studio è disponibile alla URL: www.forrester.com. Una URL identifica univocamente un documento su Internet), mentre negli Stati Uniti già il 10 per cento dei medici sono collegati a Internet.
216 Se ne deduce che l?interazione medico-paziente tramite posta elettronica sarà sempre meno occasionale.
217 Rispetto al consueto telefono questo mezzo presenta indubbiamente notevoli vantaggi. Una telefonata può essere persa, dimenticata, un appunto può finire sepolto sotto un mare di carte, e poi può essere frustrante trovare sempre la linea occupata e simili inconvenienti, mentre prendere appuntamento per e-mail è molto più pratico.
218 Uno studio americano ha investigato le abitudini di 117 pazienti con accesso a Internet (R.A. Neill, A.G. Mainous, J.R. Clark, M.D. Hagen, The utility of electronic mail as a medium for patient-physician communication, in «Arch. Fam. Med.», 1197, 3(3), pp. 268-71). Meno di un terzo di loro aveva un medico di famiglia dotato di e-mail e tra questi solo un terzo la usava effettivamente per comunicare con lui: dunque un?esigua minoranza, che si è però rivelata entusiasta del mezzo apprezzandone soprattutto la velocità, la convenienza, l?efficacia e l?utilità nel risolvere semplici problemi.
219 Con la posta elettronica i pazienti hanno un pro-memoria scritto su quello che devono fare, sulle medicine da prendere, hanno gli indirizzi di eventuali consulenti o centri specialistici da visitare e, inoltre, possono documentarsi sul World Wide Web su siti di educazione sanitaria segnalati dagli stessi medici curanti.
220 In presenza di un simile scenario, che evidenzia indubbiamente la praticità di questo mezzo di comunicazione, non vanno dimenticate le peculiarità del mondo sanitario. Per questo motivo l?AMIA ha costituito un gruppo di lavoro che ha elaborato delle linee guida che hanno senz?altro una valenza non solo locale. Presto sarà il caso di affrontare il problema anche in Europa e il lavoro già fatto negli Stati Uniti costituirà un?ottima base di partenza.
221 Queste linee guida riguardano due aspetti correlati: l?interazione clinico-paziente e l?osservanza di cautele medico-legali. Per quanto riguarda l?interazione, la prima elementare norma è evidentemente quella di non trattare casi urgenti per e-mail. Inoltre, si richiede di informare il cliente su chi leggerà i suoi messaggi, se il medico stesso o il personale della segreteria, si suggerisce, infine, di stampare ogni comunicazione e inserirla nella cartella e di predisporre sistemi di risposta automatica, tipo: "il dottore ha ricevuto il suo messaggio e le risponderà entro un giorno lavorativo, per casi urgenti chiami il numero 555-1234".
222 Dal punto di vista medico-legale, queste linee guida si preoccupano ovviamente di assicurare la massima riservatezza possibile ai pazienti. Innanzi tutto, questi dovranno acconsentire esplicitamente all?utilizzo della posta elettronica per comunicare, mentre sarà cura dei medici utilizzare il più possibile algoritmi di cifratura e di proteggere il proprio computer dall?ingerenza di estranei.
223 La posta elettronica presto diventerà una realtà familiare, quanto il telefono e il fax. È bene pensare a inserirla armoniosamente nel rapporto medico-paziente, rispettando la privacy degli individui e migliorando l?efficienza della comunicazione.
224 La rete offre vantaggi notevoli a chi voglia utilizzarla per dialogare con più persone contemporaneamente.
225 Abbiamo visto che lo stesso messaggio può essere simultaneamente inviato a più destinatari per posta elettronica, ma questo sistema ha dei limiti evidenti se pensiamo che, per proseguire il dialogo, tutti dovrebbero rispondere a tutti, creando una situazione difficilmente governabile, anzi ben presto ingestibile.
226 Nelle liste di discussione invece, ogni partecipante scrive a un unico indirizzo: quello della lista. Il calcolatore che riceve il messaggio lo ritrasmette a tutti gli altri abbonati alla lista, attivando un apposito programma di gestione delle liste.
227 Esistono migliaia di liste di discussione su migliaia di argomenti, anche nel settore biomedico, ovviamente. Ogni professionista troverà decine e anche centinaia di liste nella specializzazione di suo interesse (un ottimo database di liste, accessibile sia per parole chiave, sia per argomenti, e' disponibile alla URL: www.liszt.com).
228 Iscriversi a una di queste è semplicissimo. Normalmente l?unica cosa da fare è inviare un messaggio al calcolatore che gestisce la lista. Un apposito software installato nel calcolatore ricevente registrerà l?utente neo-iscritto e, da quel momento in poi, provvederà a rispedirgli, sempre con la posta elettronica, tutti i messaggi giunti alla lista.
229 La propria casella postale comincerà allora a riempirsi di lettere di sconosciuti (gli altri iscritti), ma l?argomento del messaggio (il "subject"), auspicabilmente indicato, dovrebbe consentire di valutare a priori l?interesse del tema trattato (fig. 3).
230 La ricerca di aiuto è la motivazione principale di chi scrive a una lista settoriale. Il più delle volte si sviluppa un senso di solidarietà che porta gli utenti, quasi tutti colleghi, a sentirsi parte di una comunità in rete e ad assistersi reciprocamente.
231 Non mancano poi quelli che si rivolgono a una lista per cercare lavoro o per offrire un contratto.
232 È ben noto tuttavia che un eccesso di informazione può portare ben presto a una saturazione delle capacità di valutarla e assorbirla. Questo paradosso si adatta bene al caso di Internet, proprio per l?ubiquità e la rapidità di distribuzione delle notizie che la rete delle reti offre.
233 Un serio inconveniente delle liste di discussione, e che in effetti spesso ne impedisce un utilizzo efficiente, è l?eccesso di messaggi che si possono ricevere. A volte così tanti che è impossibile leggerli, e in più destinati ad accumularsi implacabilmente.
234 Chiaramente molti di questi possono essere irrilevanti, magari spediti da utenti sprovveduti, e una prima scrematura può essere fatta leggendo il subject e scartandone qualcuno a priori senza neanche guardarlo.
235 Si adottano tuttavia metodi alternativi per limitare a monte la presenza di informazione non rilevante: il cosiddetto "rumore".
236 Ci sono, infatti, liste con un moderatore, nelle quali i partecipanti alla discussione inviano il loro contributo a una persona che decide se sia il caso o no di distribuirlo. Ci sono, inoltre, liste ad accesso limitato (moderate o no), cui non è possibile iscriversi automaticamente. Queste liste ? per esempio, quella dei medici di base canadesi ? sono riservate a professionisti o studiosi di una certa disciplina. Si occupano di argomenti ben precisi e possono affrontare temi che richiedono riservatezza e non sono quindi aperte a un dibattito generalizzato.
237 In futuro ci sarà un uso sempre più frequente di sistemi automatici di filtraggio delle informazioni o di ricerca attiva di queste. Tali sistemi ? attualmente impiegati a livello prototipale ? sono genericamente denominati "agenti intelligenti".
238 I gruppi di discussione, o più brevemente "newsgroup", hanno finalità analoghe alle liste di discussione, ma una modalità di interazione con l?utente completamente diversa. Anche qui si seleziona a priori un argomento (e quindi un gruppo) tra le migliaia di quelli esistenti, e anche qui si accede a una lista degli ultimi messaggi spediti al gruppo dalle varie parti del mondo.
239 La differenza sostanziale con le liste di discussione però è che si va a cercare l?informazione in questa sorta di bacheche elettroniche solo quando si vuole e si può decidere quanto andare indietro nel tempo (gli ultimi dieci messaggi, gli ultimi cento, l?ultimo mese...).
240 Si possono così seguire gli argomenti più differenti, spaziando dalla filosofia allo sport, dalla religione alla chimica, senza intasare la propria cassetta delle lettere elettronica, senza ricevere automaticamente tutti i messaggi, ma trovandoli su una sorta di "bacheca virtuale" situata su un altro calcolatore.
241 Molto spesso nelle liste di discussione o nei newsgroup vengono posti quesiti che sollecitano delle diagnosi. Di solito i responsabili di queste liste o gruppi scoraggiano esplicitamente tali richieste.
242 Esistono, infatti, seri ostacoli a un corretto rapporto me dico-paziente che Internet non consente tuttora di superare. Intanto, il messaggio del paziente potrebbe essere troppo sintetico e omettere dettagli importanti ai fini della diagnosi; inoltre, non c?è nessuna certezza che dall?altra parte risponda un vero medico, visto che in Internet è facilissimo fingersi qualcun altro. Ma anche volendo prescindere da questo, il vero impedimento sta nel fatto che manca una vera interazione, un colloquio faccia a faccia, non è possibile fare un?anamnesi accurata, appurare i sintomi, rilevare i segni e così via.
243 In ogni caso molti medici, spinti da altruismo, rispondono alle domande dei pazienti, pur premettendo che la risposta non costituisce diagnosi. Non è ancora chiaro dal puntodi vista legale quali responsabilità abbia chi formula tali pareri.
244 Il problema è generalizzabile ad altri professionisti del mondo sanitario ed è ancora irrisolto: aiutare on-line, ma con quale rischio? Per ora la soluzione migliore sembra essere quella di evitare risposte individuali, ma di rimandare a sorgenti informative come le società professionali che diano informazioni generiche su determinate patologie, senza scendere nello specifico caso clinico.
245 Fino ad ora si è visto come utilizzare la rete per scambiarsi messaggi, dialogare su un tema, dibattere.
246 C?è però un?altra modalità di interazione con Internet, in cui l?utente esplora le risorse disponibili ? o, come si dice in gergo, "naviga" ? accedendo a documenti composti da testo, immagini, suoni. Si tratta del World Wide Web: la ragnatela mondiale ipermediale che ha rivoluzionato la rete e ha contribuito a renderla non solo più versatile e interessante, ma anche più semplice da utilizzare. Il Web è in buona sostanza l?artefice dell?estrema popolarità di Internet, tanto che nel linguaggio comune capita di identificarlo con la stessa Internet.
247 Con un?interfaccia semplicissima è possibile rinvenire risorse molto diverse: banche dati, pubblicazioni on-line, presentazioni di industrie. Le scienze biomediche sono ovviamente presenti in questa galleria di argomenti eterogenei che spazia dai musei virtuali all?astrofisica. Perciò, come si vedrà in questo libro, abbiamo centri di ricerca che presentano i propri risultati, ospedali virtuali per la didattica, gruppi di studio, associazioni professionali e anche cartelle cliniche in rete.
248 Il World Wide Web è in effetti un enorme ipertesto multimediale in cui i possibili percorsi, quelli che collegano un file con un altro, sono realizzati riportando nel file di partenza l?indirizzo del file da raggiungere.
249 Se nuova è la realizzazione tecnologica, il principio che è alla base di questa organizzazione della conoscenza era già stato definito negli anni Quaranta da Vannevar Bush, consigliere scientifico del presidente degli Stati Uniti. " il principio che è alla base dell?ipertesto e che solo recentemente i progressi dell?informatica hanno reso possibile realizzare.
250 Supponiamo di avere una guida ipertestuale e multimediale (e quindi ipermediale) dell?Austria. Chi consulta la guida si imbatte nella parola "Vienna", che è specialmente evidenziata perché può portarci altrove, per esempio a una piantina della città che evidenzia alcuni monumenti. Selezioniamo una chiesa e ne appare una breve descrizione dalla quale apprendiamo che vi è sepolto Salieri. Suona vagamente familiare: chi era? Basta cliccare sul nome ed ecco una biografia: nato nel 1750 e morto nel 1825, musicista di corte... è citato anche Mozart in questa breve nota. Possiamo fare click su Mozart e trovare il catalogo delle sue opere e magari ascoltare una sua sinfonia.
251 Un sistema ipermediale realizza queste funzionalità, può implementare su un calcolatore questa guida ideale. È un modo diverso e innovativo di leggere in maniera non sequenziale corpora di documenti progettati per essere esplorati liberamente. Da una parte, la possibilità di integrare testi, immagini, suoni e anche video (multimedialità) e dall?altra le potenzialità della rete Internet che è in grado di offrire questa vastissima collezione multimediale di file collegati e collegabili l?uno con l?altro.
252 Netscape, una volta avviato, va automaticamente a cercare su Internet un documento da cui iniziare la navigazione. Il documento che preferiamo: non c?è una gerarchia nella rete, non c?è un padre di tutti i file, non c?è un punto di partenza privilegiato. Il programma può, ad esempio, essere configurato per partire dalla cosiddetta «home page» (In Italia è invalso l'uso del termine inglese, mentre i francesi preferiscono usare «page d'accueil». È sostanzialmente un ibrido tra la copertina e il sommario di un libro: titolo, grafica, informazioni fondamentali e l'accesso alle principali sezioni del sito) della sezione di informatica medica dell?università di Stanford (www.smi.stanford.edu). L?utente potrebbe facilmente cambiare questa configurazione e decidere di vedere per prima cosa il suo giornale preferito, il sito della CNN, JAMA, il BMJ o qualunque altra cosa.
253 Si ha di fronte una sorta di menu in cui le opzioni possibili corrispondono normalmente ai gruppi di parole sottolineate. Perciò si può scegliere una di queste e con il mouse portare il cursore su "Research Projects" o su "Publications". Dopo aver fatto click lì sopra, si vedrà apparire sullo schermo quello che si è richiesto, e così, sempre puntando il mouse, si andrà avanti nell?esplorazione delle risorse disponibili, sia al l?interno del sito selezionato (quello di Stanford), sia all?esterno (se questo sito, come è auspicabile e normalmente accade, consente di puntare ad altre risorse presenti in rete).
254 Così possiamo saltare da una parte all?altra della rete (e del mondo) percorrendo questa ragnatela.
255 Non è una magia. Ogni file è identificato univocamente da un sistema di coordinate che comprende: ? l?indirizzo Internet del calcolatore su cui il file è fisicamente memorizzato; ? la directory in cui il file si trova, o il percorso che bisogna compiere per giungere a questo file.
256 Questo indirizzo univoco è detto URL ("Universal Resource Locator"). Una URL è, per esempio:
257 Nell?esempio proposto "www.univaq.it" è l?indirizzo in rete del calcolatore presso l?università dell?Aquila dove è ospitato il sito, "rein" indica al calcolatore dell?università in quale directory trovare il file "ects-aq.htm".
258 Si noti che non sempre è necessario specificare tutte queste informazioni, spesso ci sono URL molto sintetiche, come www.apple.com. In questo caso la macchina contattata è predisposta per presentare all?utente la home page di quel sito.
259 Nel seguito di questo volume verranno riportati alcuni esempi di "siti Web", ovvero di calcolatori che memorizzano documenti multimediali e li rendono accessibili via Internet. La URL fornisce le coordinate per orizzontarsi nella ragnatela mondiale e individuare questi siti. Qualsiasi software per navigare (browser) consente di introdurre una URL e collegarsi con il sito richiesto.
260 Supponiamo di voler consultare il catalogo della Library of Congress e supponiamo anche di utilizzare Netscape come software per navigare su Internet (Netscape gira sia su Windows sia su Macintosh e si stima che circa il 50 per cento degli utenti lo utilizzino). Collegarsi con questa biblioteca è semplicissimo: basterà digitare www.loc.gov nella finestra "GoTo" di Netscape e il programma penserà a raggiungere il sito specificato. Attenzione: alcuni software per la navigazione richiedono che http:// preceda la URL, questo per specificare che si utilizza il protocollo di trasferimento degli ipertesti (HtTP è, infatti, l'acronimo di HyperText Transfer Protocol).
261 In questo volume verranno passate in rassegna alcune realizzazioni significative, cercando di mettere in rilievo i benefici che i professionisti ne potranno trarre ed evidenziando l?aspetto innovativo della fruizione di informazione ? uso della multimedialità e dell?interattività ? contrapposto alla staticità dei metodi tradizionali.
262 Un buon esempio per iniziare è il sito dedicato a una struttura di ricovero e cura: la Mayo Clinic, all?avanguardia nella ricerca e nell?assistenza, con sede principale in Minnesota e due cliniche affiliate in Florida e Arizona (www.mayo.edu).
263 Il sito è ricchissimo di informazioni sulle prestazioni offerte dalle cliniche Mayo: non dimentichiamoci che negli Stati Uniti ? ma ormai anche in Europa ? i fornitori di cura competono tra loro, il paziente è visto come un "cliente" da catturare e l?autopromozione diventa essenziale.
264 Internet gioca dunque un ruolo non secondario in questa strategia promozionale, ed ecco quindi il diffondersi sempre maggiore di risorse come quella della Mayo, che dedicano ampio spazio alle attività portate avanti nella struttura. In questo caso si potrà navigare tra le varie divisioni della clinica, leggere per ognuna un breve profilo con le caratteristiche del servizio fornito (quante prestazioni erogate in un anno, quali apparecchiature, quanti medici) e avere accesso a sintetici curricula degli specialisti operanti. Molto pratiche sono, inoltre, le informazioni logistiche che vengono date ai futuri assistiti: informazioni sui voli, sugli alberghi, su come raggiungere Rochester e le altre località sedi di cliniche e ogni ulteriore dettaglio che possa facilitare la vita, compresa una checklist delle cose da non dimenticare (documenti assicurativi, lastre, risultati di esami...). Persino uno sciopero aereo era preavvisato in una certa data per invitare chi si fosse messo in viaggio in quel giorno a contattare il proprio agente di viaggio.
265 Dunque la filosofia è quella di venire incontro in tutti i modi al possibile cliente; eppure, in questo caso, le potenzialità di Internet non vengono sfruttate fino in fondo e la prenotazione di prestazioni può essere effettuata solo telefonicamente. Si teme evidentemente un possibile abuso della rete, si temono false prenotazioni, e allora ci si affida al tradizionale telefono, forse perchÈ richiamando una persona si può essere sicuri della sua identità. On-line si hanno comunque tutte le informazioni necessarie: i vari numeri cui telefonare per i vari servizi e gli orari dei centralini.
266 Anche i medici possono rivolgersi alla Mayo Clinic nel caso abbiano bisogno di un consulto per un loro paziente. Nel sito troveranno una sezione con tutti i dettagli clinici necessari a orientarsi, senza contare che anche le attività di ricerca portate avanti e le opportunità di carriera sono segnalate.
267 Si è presentato il sito della Mayo come esempio tipico di risorsa che promuove un soggetto fornitore di cura. Va ribadito che non è certo un caso unico: molte centinaia di siti simili sono presenti in rete e un tentativo di indicizzarli è compiuto dalla Health On the Net Foundation (HON), con un motore di ricerca specializzato alla medicina (www.hon.ch) (cfr. § 4.1).
268 In Italia si troveranno svariate risorse analoghe a quella della Mayo Clinic, forse meno ricche di informazioni ? soprattutto i curricula dei medici in rete non fanno parte della nostra cultura ? ma sostanzialmente in sintonia con l?idea di promuovere una struttura, più che fornire servizi.
269 Un buon esempio è offerto dall?ospedale Galliera di Genova che elenca le prestazioni erogate, tra cui il day hospital e l?ospedalizzazione domiciliare (www.galliera.it). Interessante la rubrica telefonica con i nomi degli specialisti che effettuano visite intra-moenia a pagamento. Anche in questo caso non è possibile fissare appuntamenti per e-mail, ma è necessario telefonare: una prassi che abbiamo visto seguire anche negli Stati Uniti.
270 Nessun servizio prettamente telematico è offerto dunque da questo sito. Per trovare qualcosa di più interattivo dobbiamo trasferirci all?istituto scientifico ospedale San Raffaele di Milano che presenta con dovizia di particolari le sue quattro aree: scientifica, sanitaria, didattica e amministrativa e anche, e qui c?è qualcosa di più pratico per il navigatore, il catalogo della sua biblioteca (www.hsr.it). C?è anche un collegamento alle riviste curate dal centro, che forse poteva essere meno avaro, dato che indica solamente i titoli degli articoli pubblicati senza nemmeno riportarne gli abstract. In compenso, il lettore potrà trovare estremamente utile che siano segnalate le norme per la pubblicazione dei lavori scientifici e per le corrette citazioni bibliografiche adottate dalla maggior parte delle riviste internazionali (la cosiddetta "Convenzione di Vancouver").
271 Un?altra utile informazione che il San Raffaele propone è un mini-tutorial sulla donazione del sangue: come si dona, il check-up del donatore, le controindicazioni e così via, comprese le notizie pratiche come l?indirizzo e l?orario del centro donatori (www.hsr.it/donoret/donoret.html).
272 Questo approccio divulgativo e propagandistico è seguito anche dal già citato ospedale Galliera, a proposito del registro italiano dei donatori di midollo osseo, mentre l?istituto ortopedico Gaetano Pini di Milano ospita nelle sue pagine appelli medici urgenti (www.g-pini.unimi.it).
273 Unico forse in Italia, il Gaetano Pini ? uno dei primi siti Web ospedalieri nella nostra nazione ? consente di prenotare prestazioni via Internet, anche se la conferma è subordinata a una telefonata.
274 Quale futuro per questi siti ospedalieri in Italia? Difficile prevederlo, la risposta dipende dall?evoluzione di Internet nel nostro paese. I dati sembrano incoraggianti: il numero di abbonati cresce molto rapidamente anche da noi, ma la rete si utilizza soprattutto per svago. Sono ancora pochi i ricercatori e i professionisti del mondo sanitario che si interessano alle risorse mediche. Il sito del San Raffaele, uno dei più completi tra quelli degli istituti scientifici, è stato visitato poco più di 1000 volte nel corso del 1998, a fronte delle centinaia di migliaia, se non milioni di contatti mensili di alcuni siti negli Stati Uniti.
275 In queste condizioni un confronto è ancora improponibile e si comprendono meglio i motivi della maggiore "ricchezza" e abbondanza di informazione delle pagine Web americane.
276 Ma per fortuna gli investimenti da fare per aprire e mantenere un sito non sono proibitivi e continueremo a trovare risorse interessanti anche da noi, scongiurando il pericolo di un?omogeneizzazione culturale della rete
277 Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di psico-analisi s'intende, sa dove piazzare l'antipatia che il paziente mi dedica.
278 Di psico-analisi non parlerò perché qui entro se ne parla già a sufficienza. Debbo scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico-analisi arriccerranno il naso a tanta novità. Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che l'autobiografia fosse un buon preludio alla psico-analisi. Oggi ancora la mia idea mi pare buona perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato sul piú bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie.
279 Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch'io sono pronto di dividere con lui i lauti onorarii che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura. Sembrava tanto curioso di se stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie ch'egli ha qui accumulate!... DOTTOR S.
280 Vedere la mia infanzia? Piú di dieci lustri me ne separano e i miei occhi presbiti forse potrebbero arrivarci se la luce che ancora ne riverbera non fosse tagliata da ostacoli d'ogni genere, vere alte montagne: i miei anni e qualche mia ora.
281 Il dottore mi raccomandò di non ostinarmi a guardare tanto lontano. Anche le cose recenti sono preziose per essi e sopra tutto le immaginazioni e i sogni della notte prima. Ma un po' d'ordine pur dovrebb'esserci e per poter cominciare <I>ab ovo</I>, appena abbandonato il dottore che di questi giorni e per lungo tempo lascia Trieste, solo per facilitargli il compito, comperai e lessi un trattato di psico-analisi. Non è difficile d'intenderlo, ma molto noioso.
282 Dopo pranzato, sdraiato comodamente su una poltrona Club, ho la matita e un pezzo di carta in mano. La mia fronte è spianata perché dalla mia mente eliminai ogni sforzo. Il mio pensiero mi appare isolato da me. Io lo vedo. S'alza, s'abbassa... ma è la sua sola attività. Per ricordargli ch'esso è il pensiero e che sarebbe suo compito di manifestarsi, afferro la matita. Ecco che la mia fronte si corruga perché ogni parola è composta di tante lettere e il presente imperioso risorge ed offusca il passato.
283 Ieri avevo tentato il massimo abbandono. L'esperimento finí nel sonno piú profondo e non ne ebbi altro risultato che un grande ristoro e la curiosa sensazione di aver visto durante quel sonno qualche cosa d'importante. Ma era dimenticata, perduta per sempre.
284 Mercé la matita che ho in mano, resto desto, oggi. Vedo, intravvedo delle immagini bizzarre che non possono avere nessuna relazione col mio passato: una locomotiva che sbuffa su una salita trascinando delle innumerevoli vetture; chissà donde venga e dove vada e perché sia ora capitata qui!
285 Nel dormiveglia ricordo che il mio testo asserisce che con questo sistema si può arrivar a ricordare la prima infanzia, quella in fasce. Subito vedo un bambino in fasce, ma perché dovrei essere io quello? Non mi somiglia affatto e credo sia invece quello nato poche settimane or sono a mia cognata e che ci fu fatto vedere quale un miracolo perché ha le mani tanto piccole e gli occhi tanto grandi. Povero bambino! Altro che ricordare la mia infanzia! Io non trovo neppure la via di avvisare te, che vivi ora la tua, dell'importanza di ricordarla a vantaggio della tua intelligenza e della tua salute. Quando arriverai a sapere che sarebbe bene tu sapessi mandare a mente la tua vita, anche quella tanta parte di essa che ti ripugnerà? E intanto, inconscio, vai investigando il tuo piccolo organismo alla ricerca del piacere e le tue scoperte deliziose ti avvieranno al dolore e alla malattia cui sarai spinto anche da coloro che non lo vorrebbero. Come fare? È impossibile tutelare la tua culla. Nel tuo seno - fantolino! - si va facendo una combinazione misteriosa. Ogni minuto che passa vi getta un reagente. Troppe probabilità di malattia vi sono per te, perché non tutti i tuoi minuti possono essere puri. Eppoi - fantolino! - sei consanguineo di persone ch'io conosco. I minuti che passano ora possono anche essere puri, ma, certo, tali non furono tutti i secoli che ti prepararono.
286 Il dottore al quale ne parlai mi disse d'iniziare il mio lavoro con un'analisi storica della mia propensione al fumo:
287 - Scriva! Scriva! Vedrà come arriverà a vedersi intero.
288 Credo che del fumo posso scrivere qui al mio tavolo senz'andar a sognare su quella poltrona. Non so come cominciare e invoco l'assistenza delle sigarette tutte tanto somiglianti a quella che ho in mano.
289 Oggi scopro subito qualche cosa che piú non ricordavo. Le prime sigarette ch'io fumai non esistono piú in commercio. Intorno al '70 se ne avevano in Austria di quelle che venivano vendute in scatoline di cartone munite del marchio dell'aquila bicipite. Ecco: attorno a una di quelle scatole s'aggruppano subito varie persone con qualche loro tratto, sufficiente per suggerirmene il nome, non bastevole però a commovermi per l'impensato incontro. Tento di ottenere di piú e vado alla poltrona: le persone sbiadiscono e al loro posto si mettono dei buffoni che mi deridono. Ritorno sconfortato al tavolo.
290 Una delle figure, dalla voce un po' roca, era Giuseppe, un giovinetto della stessa mia età, e l'altra, mio fratello, di un anno di me piú giovine e morto tanti anni or sono. Pare che Giuseppe ricevesse molto denaro dal padre suo e ci regalasse di quelle sigarette. Ma sono certo che ne offriva di piú a mio fratello che a me. Donde la necessità in cui mi trovai di procurarmene da me delle altre. Cosí avvenne che rubai. D'estate mio padre abbandonava su una sedia nel tinello il suo panciotto nel cui taschino si trovavano sempre degli spiccioli: mi procuravo i dieci soldi occorrenti per acquistare la preziosa scatoletta e fumavo una dopo l'altra le dieci sigarette che conteneva, per non conservare a lungo il compromettente frutto del furto.
291 Tutto ciò giaceva nella mia coscienza a portata di mano. Risorge solo ora perché non sapevo prima che potesse avere importanza. Ecco che ho registrata l'origine della sozza abitudine e (chissà?) forse ne sono già guarito. Perciò, per provare, accendo un'ultima sigaretta e forse la getterò via subito, disgustato.
292 Poi ricordo che un giorno mio padre mi sorprese col suo panciotto in mano. Io, con una sfacciataggine che ora non avrei e che ancora adesso mi disgusta (chissà che tale disgusto non abbia una grande importanza nella mia cura) gli dissi che m'era venuta la curiosità di contarne i bottoni. Mio padre rise delle mie disposizioni alla matematica o alla sartoria e non s'avvide che avevo le dita nel taschino del suo panciotto. A mio onore posso dire che bastò quel riso rivolto alla mia innocenza quand'essa non esisteva piú, per impedirmi per sempre di rubare. Cioè... rubai ancora, ma senza saperlo. Mio padre lasciava per la casa dei sigari virginia fumati a mezzo, in bilico su tavoli e armadi. Io credevo fosse il suo modo di gettarli via e credevo anche di sapere che la nostra vecchia fantesca, Catina, li buttasse via. Andavo a fumarli di nascosto. Già all'atto d'impadronirmene venivo pervaso da un brivido di ribrezzo sapendo quale malessere m'avrebbero procurato. Poi li fumavo finché la mia fronte non si fosse coperta di sudori freddi e il mio stomaco si contorcesse.
293 Non si dirà che nella mia infanzia io mancassi di energia.
294 So perfettamente come mio padre mi guarí anche di quest'abitudine. Un giorno d'estate ero ritornato a casa da un'escursione scolastica, stanco e bagnato di sudore. Mia madre m'aveva aiutato a spogliarmi e, avvoltomi in un accappatoio, m'aveva messo a dormire su un sofà sul quale essa stessa sedette occupata a certo lavoro di cucito. Ero prossimo al sonno, ma avevo gli occhi tuttavia pieni di sole e tardavo a perdere i sensi. La dolcezza che in quell'età s'accompagna al riposo dopo una grande stanchezza, m'è evidente come un'immagine a sé, tanto evidente come se fossi adesso là accanto a quel caro corpo che piú non esiste.
295 Ricordo la stanza fresca e grande ove noi bambini si giuocava e che ora, in questi tempi avari di spazio, è divisa in due parti. In quella scena mio fratello non appare, ciò che mi sorprende perché penso ch'egli pur deve aver preso parte a quell'escursione e avrebbe dovuto poi partecipare al riposo. Che abbia dormito anche lui all'altro capo del grande sofà? Io guardo quel posto, ma mi sembra vuoto. Non vedo che me, la dolcezza del riposo, mia madre, eppoi mio padre di cui sento echeggiare le parole. Egli era entrato e non m'aveva subito visto perché ad alta voce chiamò:
296 La mamma con un gesto accompagnato da un lieve suono labbiale accennò a me, ch'essa credeva immerso nel sonno su cui invece nuotavo in piena coscienza. Mi piaceva tanto che il babbo dovesse imporsi un riguardo per me, che non mi mossi.
297 Mio padre con voce bassa si lamentò:
298 - Io credo di diventar matto. Sono quasi sicuro di aver lasciato mezz'ora fa su quell'armadio un mezzo sigaro ed ora non lo trovo piú. Sto peggio del solito. Le cose mi sfuggono.
299 Pure a voce bassa, ma che tradiva un'ilarità trattenuta solo dalla paura di destarmi, mia madre rispose:
300 - Eppure nessuno dopo il pranzo è stato in quella stanza.
301 Mio padre mormorò:
302 - È perché lo so anch'io, che mi pare di diventar matto!
303 Si volse ed uscí.
304 Io apersi a mezzo gli occhi e guardai mia madre. Essa s'era rimessa al suo lavoro, ma continuava a sorridere. Certo non pensava che mio padre stesse per ammattire per sorridere cosí delle sue paure. Quel sorriso mi rimase tanto impresso che lo ricordai subito ritrovandolo un giorno sulle labbra di mia moglie.
305 Non fu poi la mancanza di denaro che mi rendesse difficile di soddisfare il mio vizio, ma le proibizioni valsero ad eccitarlo.
306 Ricordo di aver fumato molto, celato in tutti i luoghi possibili. Perché seguito da un forte disgusto fisico, ricordo un soggiorno prolungato per una mezz'ora in una cantina oscura insieme a due altri fanciulli di cui non ritrovo nella memoria altro che la puerilità del vestito: Due paia di calzoncini che stanno in piedi perché dentro c'è stato un corpo che il tempo eliminò. Avevamo molte sigarette e volevamo vedere chi ne sapesse bruciare di piú nel breve tempo. Io vinsi, ed eroicamente celai il malessere che mi derivò dallo strano esercizio. Poi uscimmo al sole e all'aria. Dovetti chiudere gli occhi per non cadere stordito.
307 Mi rimisi e mi vantai della vittoria. Uno dei due piccoli omini mi disse allora:
308 - A me non importa di aver perduto perché io non fumo che quanto m'occorre.
309 Ricordo la parola sana e non la faccina certamente sana anch'essa che a me doveva essere rivolta in quel momento.
310 Ma allora io non sapevo se amavo o odiavo la sigaretta e il suo sapore e lo stato in cui la nicotina mi metteva. Quando seppi di odiare tutto ciò fu peggio. E lo seppi a vent'anni circa. Allora soffersi per qualche settimana di un violento male di gola accompagnato da febbre. Il dottore prescrisse il letto e l'assoluta astensione dal fumo. Ricordo questa parola <I>assoluta</I>! Mi ferí e la febbre la colorí: Un vuoto grande e niente per resistere all'enorme pressione che subito si produce attorno ad un vuoto.
311 Quando il dottore mi lasciò, mio padre (mia madre era morta da molti anni) con tanto di sigaro in bocca restò ancora per qualche tempo a farmi compagnia. Andandosene, dopo di aver passata dolcemente la sua mano sulla mia fronte scottante, mi disse:
312 Mi colse un'inquietudine enorme. Pensai: «Giacché mi fa male non fumerò mai piú, ma prima voglio farlo per l'ultima volta». Accesi una sigaretta e mi sentii subito liberato dall'inquietudine ad onta che la febbre forse aumentasse e che ad ogni tirata sentissi alle tonsille un bruciore come se fossero state toccate da un tizzone ardente. Finii tutta la sigaretta con l'accuratezza con cui si compie un voto. E, sempre soffrendo orribilmente, ne fumai molte altre durante la malattia. Mio padre andava e veniva col suo sigaro in bocca dicendomi:
313 - Bravo! Ancora qualche giorno di astensione dal fumo e sei guarito!
314 Bastava questa frase per farmi desiderare ch'egli se ne andasse presto, presto, per permettermi di correre alla mia sigaretta. Fingevo anche di dormire per indurlo ad allontanarsi prima.
315 Quella malattia mi procurò il secondo dei miei disturbi: lo sforzo di liberarmi dal primo. Le mie giornate finirono coll'essere piene di sigarette e di propositi di non fumare piú e, per dire subito tutto, di tempo in tempo sono ancora tali. La ridda delle ultime sigarette, formatasi a vent'anni, si muove tuttavia. Meno violento è il proposito e la mia debolezza trova nel mio vecchio animo maggior indulgenza. Da vecchi si sorride della vita e di ogni suo contenuto. Posso anzi dire, che da qualche tempo io fumo molte sigarette... che non sono le ultime.
316 Sul frontispizio di un vocabolario trovo questa mia registrazione fatta con bella scrittura e qualche ornato:
317 «Oggi, 2 Febbraio 1886, passo dagli studii di legge a quelli di chimica. Ultima sigaretta!!».
318 Era un'ultima sigaretta molto importante. Ricordo tutte le speranze che l'accompagnarono. M'ero arrabbiato col diritto canonico che mi pareva tanto lontano dalla vita e correvo alla scienza ch'è la vita stessa benché ridotta in un matraccio. Quell'ultima sigaretta significava proprio il desiderio di attività (anche manuale) e di sereno pensiero sobrio e sodo.
319 Per sfuggire alla catena delle combinazioni del carbonio cui non credevo ritornai alla legge.
320 Pur troppo! Fu un errore e fu anch'esso registrato da un'ultima sigaretta di cui trovo la data registrata su di un libro. Fu importante anche questa e mi rassegnavo di ritornare a quelle complicazioni del mio, del tuo e del suo coi migliori propositi, sciogliendo finalmente le catene del carbonio. M'ero dimostrato poco idoneo alla chimica anche per la mia deficienza di abilità manuale. Come avrei potuto averla quando continuavo a fumare come un turco?
321 Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l'uomo ideale e forte che m'aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente. Io avanzo tale ipotesi per spiegare la mia debolezza giovanile, ma senza una decisa convinzione. Adesso che sono vecchio e che nessuno esige qualche cosa da me, passo tuttavia da sigaretta a proposito, e da proposito a sigaretta. Che cosa significano oggi quei propositi? Come quell'igienista vecchio, descritto dal Goldoni, vorrei morire sano dopo di esser vissuto malato tutta la vita?
322 Una volta, allorché da studente cambiai di alloggio, dovetti far tappezzare a mie spese le pareti della stanza perché le avevo coperte di date. Probabilmente lasciai quella stanza proprio perché essa era divenuta il cimitero dei miei buoni propositi e non credevo piú possibile di formarne in quel luogo degli altri.
323 Penso che la sigaretta abbia un gusto piú intenso quand'è l'ultima. Anche le altre hanno un loro gusto speciale, ma meno intenso. L'ultima acquista il suo sapore dal sentimento della vittoria su sé stesso e la speranza di un prossimo futuro di forza e di salute. Le altre hanno la loro importanza perché accendendole si protesta la propria libertà e il futuro di forza e di salute permane, ma va un po' piú lontano.
324 Le date sulle pareti della mia stanza erano impresse coi colori piú varii ed anche ad olio. Il proponimento, rifatto con la fede piú ingenua, trovava adeguata espressione nella forza del colore che doveva far impallidire quello dedicato al proponimento anteriore. Certe date erano da me preferite per la concordanza delle cifre. Del secolo passato ricordo una data che mi parve dovesse sigillare per sempre la bara in cui volevo mettere il mio vizio: «Nono giorno del nono mese del 1899». Significativa nevvero? Il secolo nuovo m'apportò delle date ben altrimenti musicali: «Primo giorno del primo mese del 1901». Ancor oggi mi pare che se quella data potesse ripetersi, io saprei iniziare una nuova vita.
325 Ma nel calendario non mancano le date e con un po' d'immaginazione ognuna di esse potrebbe adattarsi ad un buon proponimento. Ricordo, perché mi parve contenesse un imperativo supremamente categorico, la seguente: «Terzo giorno del sesto mese del 1912 ore 24». Suona come se ogni cifra raddoppiasse la posta.
326 L'anno 1913 mi diede un momento d'esitazione. Mancava il tredicesimo mese per accordarlo con l'anno. Ma non si creda che occorrano tanti accordi in una data per dare rilievo ad un'ultima sigaretta.
327 Molte date che trovo notate su libri o quadri preferiti, spiccano per la loro deformità. Per esempio il terzo giorno del secondo mese del 1905 ore sei! Ha un suo ritmo quando ci si pensa, perché ogni singola cifra nega la precedente. Molti avvenimenti, anzi tutti, dalla morte di Pio IX alla nascita di mio figlio, mi parvero degni di essere festeggiati dal solito ferreo proposito. Tutti in famiglia si stupiscono della mia memoria per gli anniversarii lieti e tristi nostri e mi credono tanto buono!
328 Per diminuirne l'apparenza balorda tentai di dare un contenuto filosofico alla malattia dell'ultima sigaretta. Si dice con un bellissimo atteggiamento: «mai piú!». Ma dove va l'atteggiamento se si tiene la promessa? L'atteggiamento non è possibile di averlo che quando si deve rinnovare il proposito. Eppoi il tempo, per me, non è quella cosa impensabile che non s'arresta mai. Da me, solo da me, ritorna.
329 La malattia, è una convinzione ed io nacqui con quella convinzione. Di quella dei miei vent'anni non ricorderei gran cosa se non l'avessi allora descritta ad un medico. Curioso come si ricordino meglio le parole dette che i sentimenti che non arrivarono a scotere l'aria.
330 Ero andato da quel medico perché m'era stato detto che guariva le malattie nervose con l'elettricità. Io pensai di poter ricavare dall'elettricità la forza che occorreva per lasciare il fumo.
331 Il dottore aveva una grande pancia e la sua respirazione asmatica accompagnava il picchio della macchina elettrica messa in opera subito alla prima seduta, che mi disilluse, perché m'ero aspettato che il dottore studiandomi scoprisse il veleno che inquinava il mio sangue. Invece egli dichiarò di trovarmi sanamente costituito e poiché m'ero lagnato di digerire e dormire male, egli suppose che il mio stomaco mancasse di acidi e che da me il movimento peristaltico (disse tale parola tante volte che non la dimenticai piú) fosse poco vivo. Mi propinò anche un certo acido che mi ha rovinato perché da allora soffro di un eccesso di acidità.
332 Quando compresi che da sé egli non sarebbe mai piú arrivato a scoprire la nicotina nel mio sangue, volli aiutarlo ed espressi il dubbio che la mia indisposizione fosse da attribuirsi a quella. Con fatica egli si strinse nelle grosse spalle:
333 - Movimento peristaltico... acido... la nicotina non c'entra!
334 Furono settanta le applicazioni elettriche e avrebbero continuato tuttora se io non avessi giudicato di averne avute abbastanza. Piú che attendermi dei miracoli, correvo a quelle sedute nella speranza di convincere il dottore a proibirmi il fumo. Chissà come sarebbero andate le cose se allora fossi stato fortificato nei miei propositi da una proibizione simile.
335 Ed ecco la descrizione della mia malattia quale io la feci al medico: «Non posso studiare e anche le rare volte in cui vado a letto per tempo, resto insonne fino ai primi rintocchi delle campane. È perciò che tentenno fra la legge e la chimica perché ambedue queste scienze hanno l'esigenza di un lavoro che comincia ad un'ora fissa mentre io non so mai a che ora potrò essere alzato».
336 - L'elettricità guarisce qualsiasi insonnia, - sentenziò l'Esculapio, gli occhi sempre rivolti al quadrante anziché al paziente.
337 Sincerità e fiato sprecati! Il dottore ansava:
338 - Spero bene che le applicazioni elettriche non vi guariranno di tale malattia. Non ci mancherebbe altro! Io non toccherei piú un Rumkorff se avessi da temerne un effetto simile.
339 Mi raccontò un aneddoto ch'egli trovava gustosissimo. Un malato della stessa mia malattia era andato da un medico celebre pregandolo di guarirlo e il medico, essendovi riuscito perfettamente, dovette emigrare perché in caso diverso l'altro gli avrebbe fatta la pelle.
340 - La mia eccitazione non è la buona, - urlavo io. - Proviene dal veleno che accende le mie vene!
341 Il dottore mormorava con aspetto accorato:
342 - Nessuno è mai contento della sua sorte.
343 E fu per convincerlo ch'io feci quello ch'egli non volle fare e studiai la mia malattia raccogliendone tutti i sintomi: - La mia distrazione! Anche quella m'impedisce lo studio. Stavo preparandomi a Graz per il primo esame di stato e accuratamente avevo notati tutti i testi di cui abbisognavo fino all'ultimo esame. Finí che pochi giorni prima dell'esame m'accorsi di aver studiato delle cose di cui avrei avuto bisogno solo alcuni anni dopo. Perciò dovetti rimandare l'esame. È vero che avevo studiato poco anche quelle altre cose causa una giovinetta delle vicinanze che, del resto, non mi concedeva altro che una civetteria alquanto sfacciata. Quand'essa era alla finestra io non vedevo piú il mio testo. Non è un imbecille colui che si dedica ad un'attività simile? - Ricordo la faccia piccola e bianca della fanciulla alla finestra: ovale, circondata da ricci ariosi, fulvi. La guardai sognando di premere quel biancore e quel giallo rosseggiante sul mio guanciale.
344 Esculapio mormorò:
345 - Dietro al civettare c'è sempre qualche cosa di buono. Alla mia età voi non civetterete piú.
346 Oggi so con certezza ch'egli non sapeva proprio niente del civettare. Ne ho cinquantasette degli anni e sono sicuro che se non cesso di fumare o che la psico-analisi non mi guarisca, la mia ultima occhiata dal mio letto di morte sarà l'espressione del mio desiderio per la mia infermiera, se questa non sarà mia moglie e se mia moglie avrà permesso che sia bella!
347 Fui sincero come in confessione: La donna a me non piaceva intera, ma... a pezzi! Di tutte amavo i piedini se ben calzati, di molte il collo esile oppure anche poderoso e il seno se lieve, lieve. E continuavo nell'enumerazione di parti anatomiche femminili, ma il dottore m'interruppe:
348 - Queste parti fanno la donna intera.
349 Dissi allora una parola importante:
350 - L'amore sano è quello che abbraccia una donna sola e intera, compreso il suo carattere e la sua intelligenza.
351 Fino ad allora non avevo certo conosciuto un tale amore e quando mi capitò non mi diede neppur esso la salute, ma è importante per me ricordare di aver rintracciata la malattia dove un dotto vedeva la salute e che la mia diagnosi si sia poi avverata.
352 Nella persona di un amico non medico trovai chi meglio intese me e la mia malattia. Non ne ebbi grande vantaggio, ma nella vita una nota nuova ch'echeggia tuttora.
353 L'amico mio era un ricco signore che abbelliva i suoi ozii con studii e lavori letterari. Parlava molto meglio di quanto scrivesse e perciò il mondo non poté sapere quale buon letterato egli fosse. Era grasso e grosso e quando lo conobbi stava facendo con grande energia una cura per dimagrare. In pochi giorni era arrivato ad un grande risultato, tale che tutti per via lo accostavano nella speranza di poter sentire meglio la propria salute accanto a lui malato. Lo invidiai perché sapeva fare quello che voleva e m'attaccai a lui finché durò la sua cura. Mi permetteva di toccargli la pancia che ogni giorno diminuiva, ed io, malevolo per invidia, volendo indebolire il suo proposito gli dicevo:
354 - Ma, a cura finita, che cosa ne farà Lei di tutta questa pelle?
355 Con una grande calma, che rendeva comico il suo viso emaciato egli rispose:
356 - Di qui a due giorni comincerà la cura del massaggio.
357 La sua cura era stata predisposta in tutti i particolari ed era certo ch'egli sarebbe stato puntuale ad ogni data.
358 Me ne risultò una grande fiducia per lui e gli descrissi la mia malattia. Anche questa descrizione ricordo. Gli spiegai che a me pareva piú facile di non mangiare per tre volte al giorno che di non fumare le innumerevoli sigarette per cui sarebbe stato necessario di prendere la stessa affaticante risoluzione ad ogni istante. Avendo una simile risoluzione nella mente non c'è tempo per fare altro perché il solo Giulio Cesare sapeva fare piú cose nel medesimo istante. Sta bene che nessuno domanda ch'io lavori finché è vivo il mio amministratore Olivi, ma come va che una persona come me non sappia far altro a questo mondo che sognare o strimpellare il violino per cui non ho alcuna attitudine?
359 Il grosso uomo dimagrato non diede subito la sua risposta. Era un uomo di metodo e prima ci pensò lungamente. Poi con aria dottorale che gli competeva data la sua grande superiorità in argomento, mi spiegò che la mia vera malattia era il proposito e non la sigaretta. Dovevo tentar di lasciare quel vizio senza farne il proposito. In me - secondo lui - nel corso degli anni erano andate a formarsi due persone di cui una comandava e l'altra non era altro che uno schiavo il quale, non appena la sorveglianza diminuiva, contravveniva alla volontà del padrone per amore alla libertà. Bisognava perciò dargli la libertà assoluta e nello stesso tempo dovevo guardare il mio vizio in faccia come se fosse nuovo e non l'avessi mai visto. Bisognava non combatterlo, ma trascurarlo e dimenticare in certo modo di abbandonarvisi volgendogli le spalle con noncuranza come a compagnia che si riconosce indegna di sé. Semplice, nevvero?
360 Sinistra e destra, due nature morte separate dalla loro pianta d'origine. I bipolarismi in campo sono logorati sul piano teorico e pratico: anche quelli tra laburisti e conservatori, tra progressisti e moderati, tra liberaldemocratici e socialdemocratici. Si è assottigliato il terreno su cui esprimere ed esercitare le differenze, con la tendenza a ridurre la banda di oscillazione delle opzioni in un ambito sempre più ristretto e sempre più pragmatico e occasionale. L'identità è decisa dalla collocazione e non più viceversa. Trovarsi al governo o all'opposizione decide molto più che definirsi conservatori o progressisti.
361 La conseguenza è una tendenza generale verso il centro attraverso l'assunzione di un residuo ideologico progressista sul piano etico-culturale e di un crescente pragmatismo liberista sul piano economico-sociale. Questa osmosi avviene nel quadro di un indebolimento strutturale della sovranità politica in funzione di un rafforzamento dei poteri tecnocratici ed economici. Punto di incontro fra progressismo culturale e liberismo economico, fra ideologia e tecnocrazia, è il processo di globalizzazione che riassume in un significato freddo ed empirico sia l'internazionalismo «caldo» della tradizione di sinistra che l'espansione planetaria del mercato e della tecnica nel segno del capitalismo. Nelle democrazie occidentali sta affermandosi un nuovo centrismo a trazione tecnocratica che fonde sinistra culturale e destra economica; e in politica estera fonde pacifismo morale e interventismo militare attraverso il principio d'ingerenza umanitaria. Si configura il disegno di uno Stato etico mondiale, assistente morale e militare della globalizzazione.
362 Ora, questo processo indebolisce gli spazi della democrazia e della libertà, perché riduce di fatto la possibilità di scegliere tra opzioni politiche differenti. E tende a escludere o emarginare troppe realtà, convinzioni, culture, idee e diversità che non si riconoscono all'interno di una così ristretta forbice.
363 Dall'altra parte, insorge la realtà con le sue crisi di rigetto: che in Occidente si esprime scalando i gradini della disaffezione politica, dell'astensionismo elettorale, dell'abdicazione della sovranità popolare, del rifugio nei localismi o nelle tribù, della depressione di massa, dell'anomia diffusa. E nel resto del mondo si esprime nei forti conati di identità, rivendicazioni di autodeterminazione, guerre civili ed etniche, integralismi e nazionalismi.
364 Questo paesaggio induce molti teorici a ridisegnare il bipolarismo fuori dagli ambiti politici e dai sistemi elet-torali in una chiave fortemente valutativa: l'alternativa prossima ventura, viene ripetuto da più parti, sarà tra universalismo o tribalismo, come scrive ad esempio Salvatore Veca. È evidente che ponendo in questi termini l'alternativa, si attribuisce al primo valore positivo e al secondo valore negativo a priori. In subordine, si attribuisce al primo la vocazione e il destino dell'Occidente, prefigurando uno scenario unidirezionale; e al secondo la minaccia che riguarda il resto del mondo e le periferie occidentali, se non saranno convertiti con le idee, con le merci o con le armi, all'Occidente e al suo modello. All'universalismo, naturalmente, si attribuisce la democrazia, il rispetto dei diritti umani, la libertà e al tribalismo la loro negazione. Ma oltre a usare una comparazione impropria tra un «bene» e un «male», l'alternativa tra universalismo e tribalismo soffre di altre due debolezze: da un verso destina, per disparità di forze in campo, il secondo a essere soccombente rispetto al primo, capace di mobilitare la tecnica e l'economia, i mezzi di comunicazione e tutte le risorse di una potenza planetaria. E dall'altro non considera che come il localismo appare oggi una variabile dipendente e subordinata al globalismo, così il tribalismo appare oggi una specie di sottoprodotto dell'universalismo, un suo figlio deviato, quasi un suo effetto collaterale. A volte il tribalismo è usato dalla globalizzazione per scardinare le sovranità nazionali. Si tratta dunque di un'alternativa squilibrata,in cui un polo è soccombente sul piano dei valori, della forza e dell'autonomia culturale rispetto all'altro, fino a essere una sua fastidiosa escrescenza e deviazione. Insomma, un bipolarismo finto o provvisorio, che non suggeriscel'idea di una reciproca legittimazione quanto piuttosto il proposito dell'eliminazione progressiva del secondo polo, in ritardo rispetto alla razionalità «monoteista» del nuovo ethos mondiale.
365 In realtà le convulsioni di fine millennio che abbiamo sotto gli occhi non discendono semplicemente dalla pulsione «tribale» (e dunque dal revival etnico-religioso integralista o nazionalista) ma dal cortocircuito tra mondialismo e tribalismo, tra assenze di sovranità riconosciute e pretese di sovranità, e sul piano culturale tra nichilismo e fanatismo. Anzi, i residui integralismi del passato acquistano virulenza proprio nella loro trasformazione in ideologie, ovvero nel loro contagio «occidentale». I conflitti sono spesso innescati dal contrasto tra nuovi dei, d'importazione coloniale, e antichi dei, indigeni. Moderne volontà di potenza eccitano ancestrali ferocie di guerrieri. Molti nazionalismi e molti integralismi religiosi insorgono sulle ceneri di identità negate, di patrie depresse, represse o compresse, di modelli calati dall'alto, di riduzionismi culturali. Aggressività e frustrazione si alimentano a vicenda.
366 Si potrebbe arrivare a dire che l'universalismo sia un effetto positivo che sorge da una causa negativa (la perdita d'identità, lo sradicamento) e il tribalismo sia, al contrario, un effetto negativo che sorge da una causa positiva (la difesa dell'identità, il radicamento).
367 In realtà usiamo una coppia diseguale, che per giunta non è utilizzabile nelle categorie della politica e della democrazia. Allora il tentativo che percorre queste pagine è di ripensare all'alternativa d'inizio millennio non svalutando uno dei due termini in questione, ma cercando col massimo rigore di rappresentare la coppia antagonista nella miglior forma possibile e più compatibile con le democrazie occidentali e con le categorie odierne della politica.
368 Da qui la convinzione che stia delineandosi nella realtà ma anche nel pensiero un antagonismo sempre più chiaro e distinto: tra liberal e comunitari. È un'alternativa che non rimette in piedi i declinanti bipolarismi ma prende atto della contaminazione avvenuta e del loro sbiadimento e attraversamento. Se è vero che una cultura di segno progressista sia più attratta dall'opzione liberal, e viceversa una cultura di segno conservatore sia più attratta dall'opzione comunitaria, le scomposizioni e le ricomposizioni di campo non sono assolutamente marginali e presentano forti difficoltà di identificazione in paesi a vocazione centrista come l'Italia, pur oscillante tra guerra civile e consociazione. E dove i poli di centro-destra e centro-sinistra amano presentarsi come liberali, pur essendo il primo in prevalenza populista, e il secondo di larga provenienza comunista. Senza dire delle difficoltà di collocazione dei cattolici democratici in un'area liberal, come molte questioni di bioetica e riguardanti i valori comuni vanno evidenziando.
369 Tuttavia, emergono sempre più le contraddizioni dell'attuale scenario politico, le reciproche accuse di finto liberalismo, l'impraticabilità del presente bipolarismo che regge evidentemente su gambe fragili e storte.
370 Dall'altra parte in Italia e nelle altre democrazie occidentali emergono sempre più nettamente nuove divaricazioni sulle questioni decisive e più cruciali per i cittadini, riguardanti la genetica e la bioetica, l'immigrazione e l'integrazione, le sovranità popolari e nazionali, i valori condivisi, la famiglia, la religione, il rapporto tra individui e società.
371 Queste divaricazioni non sono più rappresentate dai vecchi antagonismi, ma delineano piuttosto una sensibilità liberal e una sensibilità comunitaria. Uso queste due definizioni non solo perché appaiono le meno imprecise per indicare le due differenti inclinazioni, ma per una ragione teorica confermata da una tendenza pratica: le maggiori divisioni politiche e sociali si registrano proprio quando sono in gioco istanze liberal contro istanze comunitarie; e sul piano scientifico la più forte distinzione che emerge nella filosofia politica contemporanea è proprio quella tra comunitari e liberal.
372 Naturalmente sul piano della lotta politica i termini usati non sono gli stessi: l'alternativa tra liberal e comunitari viene rappresentata in forme polemiche più contingenti, come ad esempio il conflitto tra oligarchie e populismo, per usare due espressioni entrambe svalutative. O tra internazionalisti e identitari, tra cittadini del mondo individual-cosmopoliti e «patrioti», o ancora tra universalisti e particolaristi, per usare la distinzione di Ernst Nolte.
373 Proviamo a fare un ulteriore passo in avanti nelle due definizioni, cercando di cogliere il rispettivo nocciolo teorico.
374 Chi è liberal? Anzi, cominciamo dal nome, perché liberal e non liberale? Perché liberale nella cultura continentale europea e soprattutto italiana evoca una tradizione di storia e di pensiero che si intreccia con il nazionalismo e il patriottismo risorgimentale, con l'hegelismo e lo Stato etico ed economicamente interventista, la destra storica, il conservatorismo, l'anticomunismo, la preferenza «umanistica» sulla cultura empirica e scientifica. Liberal, invece, evoca la tradizione anglosassone nel suo combinarsi tra empirismo metodologico e idealismo morale, che oppone liberal a conservative e assume al suo interno opzioni progressiste, laburiste e democratiche di sinistra, fino ad accogliere come compagni di strada anche i radical e i comunisti, non solo ex o post (come a livello politico accade in Francia e Italia). L'incontro con lo spirito liberal porta a maturazione il germe individualista del socialismo che era anche in Marx e di cui Louis Dumont è stato un lucido analista. Già Nietzsche rilevava che «il socialismo è uno strumento di agitazione dell'individualista [...] ciò che egli vuole non è la società come fine del singolo, ma la società come mezzo per rendere possibili molti individui».
375 Qual è il nocciolo dei liberal? L'idea di emancipazione, di liberazione dai legami, nel progetto di un'umanità liberata. Un'idea che si coniuga con la deterritorializzazione, il superamento dei confini, l'universalismo. Liberal è colui che punta sull'emancipazione dell'individuo dai vincoli sociali, territoriali, familiari, tradizionali. La cultura liberal è una corda tesa tra individualismo e internazionalismo, nel progetto di formare un cittadino del mondo. La sua azione politica è percorsa da un'idea correttiva della realtà: bisogna modificare l'esistente che non è frutto del destino o dei disegni della provvidenza, ma è pura casualità, gioco fortuito delle combinazioni, lotteria, ingiustizia da rimuovere. L'incidenza della «natura» intesa come origine va ridotta: sia perché la cultura è concepita come emancipazione dalla natura, dall'origine; sia perché quel che definiamo natura è spesso per il liberal solo stratificazione storica, proiezione di un dominio culturale, convenzione accumulata nel tempo. Si può dire che il liberal sia proiettato nella dimensione del possibile, del non ancora, dunque del futuro. Ma si potrebbe anche sostenere da un punto di vista critico l'esatto opposto: il liberal in realtà ha un solo antagonista, l'Origine, il reale, il già stato ed esaurisce la sua lotta a combattere e negare l'esistente: combatte con la testa rivolta alle spalle. La sua libertà non è in vista di ma liberazione da.
376 Dall'altro versante, dicevamo, i comunitari. Chi sono? Esiste da una parte un piccolo mondo culturale che si definisce comunitario, verso cui affluiscono circoli di nuova destra, ambientalisti, cattolici o provenienti dalla nuova sinistra; e dall'altra una sensibilità comunitaria diffusa e spontanea. Ma non esiste nel mezzo un movimento compiutamente comunitario: c'è un comune sentire da una parte e una teoria intellettuale dall'altra, e in mezzo il vuoto. Solitamente il riferimento teorico principale va ai communitarians americani, che hanno negli ultimi anni animato la questione comunitaria il più delle volte contrapponendola all'opzione liberal, in alcuni casi ibridandola con essa. Sono MacIntyre, Sandel, Taylor, Etzioni, di provenienza variegata, conservatrice o anche radical. Ma accanto a questo filone culturale di comunitarismo freddo (che confina con la nuova destra e con la nuova sinistra, con il pensiero anti-utilitarista, la sociologia di Lasch e di Maffesoli e la cultura cattolica) c'è poi un pensiero caldo del comunitarismo, umanistico e spiritualistico. Solo per limitarci al nostro secolo, si potrebbero citare quattro opere coeve di autori molto diversi tra loro: Simone Weil della Prima radice, Giovanni Gentile di Genesi e struttura della società, Thomas Stearns Eliot di L'idea di una società cristiana e Emmanuel Mounier di Rivoluzione personalista e comunitaria. Fili conduttori: il primato del noi, il richiamo alla continuità e alle radici, la forza del legame sociale, la visione religiosa della vita sociale e politica.
377 Proviamo allora a definire oggi il nocciolo del comunitarismo. Dov'è la sua scatola nera? È nel senso del radicamento in un orizzonte sociale e culturale avvertito come orizzonte comune, plurale e significativo. Comunitario è chi assegna valore all'identità, alla provenienza, dunque all'origine; e alle vie che conducono alle radici, come le tradizioni. Comunitario è chi assegna valore al legame sociale, religioso, familiare, nazionale, che non vive come vincolo ma come risorsa. Per il comunitario il legame non è la catena che ci imprigiona e ci limita nella libertà ma il filo d'Arianna che ci lega ad altri e ci sostiene. Il confine non è il male ma ciò che garantisce in concreto la sfera del nostro essere e il nostro agire. Comunitario è chi ritiene che ogni Io abbia un luogo originario o eletto, che avverte come patria; per lui non è insignificante o fortuita la sua origine o la sua destinazione, i suoi legami. Quel che il liberal vede come frutto di una lotteria del caso, il comunitario vive come evento significativo, se non voluto da un destino o una provvidenza. La realtà non è dunque una possibilità tra le altre da cui liberarsi, ma è ciò che ci definisce, ci identifica, ci chiama a un ruolo, a un senso e a un compito. Amor fati, si potrebbe dire con due filosofi tutt'altro che fatalisti: Friedrich Nietzsche e Simone Weil. Con le stesse parole indicavano due opposti disegni: per Nietzsche l'amor fati celebrava le nozze dell'uomo con la terra, per la Weil erano le nozze con il cielo.
378 Il comunitario infine è colui che assegna importanza al comune sentire, ai riti, le usanze e i costumi di un popolo. Importanza non sociologica o folcloristica, ma vitale, come modelli di riferimento per orientarsi. Archetipi che comprendono pure una zavorra fatta di pregiudizi, totem e tabù. Ma la convinzione «realista» del comunitario è che ogni individuo si circondi e si nutra di pregiudizi, totem e tabù; la differenza è che lui preferisce quelli consolidati da una tradizione a quelli dominanti nel proprio tempo. Come agenzia di senso preferisce affidarsi all'esperienza sociale ereditata piuttosto che alle fabbriche mediali e intellettuali del consenso e delle opinioni. Se il liberal procede nel futuro rivolto indietro a combattere contro il passato, la natura e l'origine, il comunitario procede nel futuro sentendosi sospinto dalle radici, dal passato. Il legame con la tradizione lo induce a confidare nella continuità, nella trasmissione, che è dunque non solo a parte ante ma anche a parte post. L'avvenire visto non come liberazione dal passato ma come gravidanza e dunque come passaggio aristotelico dalla potenza all'atto. Non creazione ma procreazione. La realtà per il comunitario non va abolita, rimossa, sostituita, nel nome di una pur «ragionevole utopia» (Veca); ma va organizzata, ordinata, messa in forma (Spengler).
379 Ho calcato la mano sulle differenze tra liberal e comunitari, sapendo che la realtà non presenta mai modelli così netti e distinti, e adesioni altrettanto nette e decise, ma procede per contaminazioni, attraversamenti, contraddizioni. Che sono non solo il segno dell'imperfezione ma anche la risorsa che consente la convivenza, la reciproca comprensione. Diciamo allora che la distinzione va fatta tra un atteggiamento prevalentemente liberal e un atteggiamento prevalentemente comunitario.
380 Nella declinazione di ogni bipolarismo c'è oggi una premessa che viene solitamente elevata al rango di giudizio a priori, se non di vero e proprio pre-giudizio: l'accettazione dell'orizzonte liberale. In altri termini non è ammessa una scelta comunitaria che non si riconosca a sua volta nell'ambito delle regole liberali. Questa premessa soffre però di un limite teorico e pratico che indebolisce il bipolarismo: l'unilateralità, la non reciprocità del riconoscimento. In realtà, se vogliamo ricondurre l'antagonismo sul terreno di valori realmente condivisi, nell'alveo del civile confronto e del comune rifiuto della violenza, dobbiamo partire da un'altra premessa: c'è un perimetro di mura fondanti di una polis che va riconosciuto da ambo le parti. Ovvero un perimetro basilare di principi condivisi che deve essere accettato da ambo le parti. Da dove attingere questi valori condivisi? Dal nucleo di verità che il liberal e il comunitario riconoscono nel rispettivo antagonista. Nel caso dei liberali, il rispetto per la libertà dei singoli, la necessità di porre limiti al potere, la tutela delle minoranze, la critica al perfettismo nel nome della tolleranza. Nel caso dei comunitari, il rispetto per le identità e le differenze, i diritti del comune sentire dei popoli, la tutela delle famiglie e dei legami sociali, i limiti al potere politico, economico ecc. nel nome di tradizioni, religioni, culture. Un liberal non può dirsi estraneo e ostile a questi valori comunitari, così come un comunitario non può dirsi estraneo e ostile ai valori liberali sopra accennati. Una democrazia non può sopravvivere se non c'è reciproca legittimazione e reciproco riconoscimento di un nucleo di verità. Un liberal non può far tabula rasa delle tradizioni e del comune sentire di un popolo; un comunitario non può prescindere dalle regole e dal rispetto delle leggi.
381 Dov'è allora la differenza, una volta ammessi valori condivisi? Nella scala delle priorità: fermo restando che i valori di libertà e i valori comunitari sono terreno condiviso da ambedue, il liberal assegnerà la precedenza ai primi e il comunitario ai secondi. Intendiamoci. L'esito concreto sarà tutt'altro che idilliaco, perché i margini di interpretazione restano assai controversi e le dure repliche della realtà inaspriscono i conflitti. Così come non mancano valori contesi o rigettati da ambo le parti e criteri di scelta caduti nella terra di mezzo. La solidarietà, ad esempio: è un valore che attiene più alle società liberal perché richiama la passione egualitaria di correggere le disparità originarie o alle società comunitarie perché evoca il legame sociale, il senso profondo del noi? La tutela delle differenze è messa più a repentaglio nelle società universalistiche ma preoccupate dei diritti delle minoranze o nelle comunità fondate sull'idem sentire ma preoccupate di tutelare le identità e le diversità? L'associazionismo, la circolazione delle élites, la selezione, sono più favoriti in una società di singoli o in una società in cui è più vivo il reticolo dei pluralismi sociali?
382 È evidente che si debbono precisare gli ambiti e le condizioni specifiche; ma è inevitabile che ci siano istanze da cui si può entrare e uscire da porte opposte. Ancora una volta il bipolarismo tra liberal e comunitari ha un valore orientativo, regolativo; non può avere un valore costitutivo assoluto.
383 Abbiamo rappresentato il bipolarismo al meglio; ma per una questione di metodo e non per una vocazione all'ottimismo. Sul piano storico le due opzioni presentano rischi speculari che vanno riconosciuti. Quali sono le possibili degenerazioni di una scelta liberal? Il rifiuto giacobino della realtà nel nome dell'utopia, il prevalere di un individualismo che sfocia nell'egoismo e nella solitudine, l'avvento di un pericoloso nichilismo sociale, la morte della politica e della società a vantaggio di un villaggio globale dominato dai signori della tecnica e della finanza, attraverso centri di potere oligarchico transnazionale, l'avvento dell'uniformità globale, l'assenza di valori superiori e di scopi comuni.
384 Quali sono le possibili degenerazioni di una scelta comunitaria? Il populismo e l'autoritarismo rifusi nel rischio cesarista, il riaccendersi di odi atavici, etnici, religiosi, nazionali, l'universo razionale insidiato dall'universo mitico-emozionale, la scarsa tutela delle minoranze estranee al comune sentire (gay, immigrati, tossicomani), i diritti individuali trascurati. In entrambe le forme degenerate ci può essere il rischio finale di un dispotismo; il primo, legato alla brutta miscela di nichilismo e uniformità globale, il secondo, legato alla brutta miscela di autoritarismo e fondamentalismo. E da entrambi può sorgere il pericolo di un conflitto radicale fondato sulla demonizzazione e l'eliminazione del nemico, considerato come nemico assoluto della libertà o della comunità, dell'umanità o della verità, della ragione o della tradizione. Si può perfino arrivare al razzismo da entrambi i versanti, per analogia o per contrappasso: ovvero si può alimentare il razzismo attraverso la negazione delle differenze, nel nome dell'emancipazione universale, o attraverso l'eccitazione delle differenze, nel nome della propria. Nota Todorov: «Identificare un ?noi' e un ?loro' sulla base delle caratteristiche fisiche [...] è il modo più facile per orientarsi in una società nella quale gli altri punti di riferimento sono scomparsi». Una società disgregata e nichilista può essere preda del razzismo perché semplifica le differenze e le traduce nel brutale parametro del dato fisico e quantitativo. Quando la diversità altrui è vissuta come un male, allora sorge il razzismo: ma questo può avvenire tanto in una società che vive la propria identità comunitaria come superiore alle altre o come esclusione degli altri, quanto in una società che vive l'omologazione come razionalizzazione del mondo e superiorità del proprio modello di vita. C'è il fondato rischio che per combattere il razzismo etnico sorga un razzismo etico, anch'esso intollerante ed esclusivo, imperniato sull'idea di superiorità etica, al punto da retrocedere il proprio avversario al rango di un'umanità inferiore, da educare, reprimere o eliminare. Il razzismo poggia sovente su un pregiudizio evoluzionista e progressista degli «emancipati» verso gli arretrati, i moderni contro i primitivi.
385 Il liberal preferisce correre i rischi del primo tipo, il comunitario preferisce correre i rischi del secondo tipo. E anche qui, il dispositivo per arginare i rischi delle due derive è nella funzione frenante che i valori comuni possono svolgere, ciascuno nel campo avverso. Chiamiamo democrazia il perimetro comunemente accettato dai liberal e dai comunitari in cui convivono le istanze di entrambi.
386 Infine sorge una questione relativa ai confini di questo bipolarismo: la scelta liberal e la scelta comunitaria devono comprendere oppure no chi non riconosce un terreno comune di valori condivisi? Devono accettare nel proprio seno o comunque nell'arco delle proprie alleanze gli estremismi e i radicalismi oppure rigettarli? Facciamo un esempio concreto: una coalizione liberal può inglobare anche la sinistra più radicale, per esempio coloro che si definiscono comunisti, gli anarchici o coloro che provengono dall'estremismo di sinistra? E una coalizione opposta può inglobare anche la destra più radicale, coloro che si definiscono nazionalisti o che provengono dal fascismo?
387 Anche in questo caso, quel che conta è che l'opportunità sia bilaterale. Rifiutare la bilateralità sostenendo l'incomparabilità tra le due galassie significa pretendere che il pre-giudizio ideologico di una parte sia unilateralmente imposto anche all'altra parte.
388 Ci sono allora due soluzioni coerenti: quella di una democrazia inclusiva, di un bipolarismo aperto, che riconosca all'interno di ciascun polo, seppure ai margini più periferici, anche le posizioni più estreme e perfino le posizioni che negano l'esistenza di valori condivisi. Se la soglia di accettabilità è stabilita solo dal consenso democratico liberamente espresso, è possibile includere le due ali. O, viceversa, si può preferire una democrazia protetta, e dunque un bipolarismo chiuso che escluda le ali estreme e rifiuti alleanze con chi non riconosce il perimetro comune della polis.
389 Quel che non è possibile fare se si tiene alla democrazia è consentire a uno schieramento un potere di coalizione che si nega all'altro. Come di fatto avviene oggi, con le coalizioni di centro-sinistra che accettano alleanze di governo con i partiti comunisti e la sinistra estrema, mentre le coalizioni di centro-destra devono respingere nazionalisti e destra estrema. Il più vistoso è l'esempio francese. L'esclusione o l'inclusione deve essere comunque bilaterale, altrimenti un bipolarismo diseguale produce una democrazia dimezzata con disparità di chance e un'egemonia ideologica che eleva uno dei giocatori ad arbitro della stessa partita che sta giocando.
390 Personalmente propendo per una democrazia inclusiva perché penso che i danni di un'esclusione dei due estremi siano superiori ai vantaggi: includendo anche le posizioni radicali si allargano i confini della democrazia e della partecipazione popolare, anche se si abbassa il tasso di omogeneità delle coalizioni; in tal modo si agevola la deradicalizzazione delle posizioni estreme, che a volte sono tali proprio perché è negato loro il pieno riconoscimento nella democrazia. Delegittimate, radicalizzano la loro opposizione al sistema. In ogni caso in una democrazia il vero discrimine di liceità dev'essere di tipo pratico-giudiziario e non teorico-ideologico: le opinioni non democratiche, anti-comunitarie o anti-liberali, non sono reati; lo sono i comportamenti violenti, gli atti che violano le leggi dello Stato e che danneggiano terzi. La buona regola per la democrazia è l'omeopatia: chi sceglie l'estremismo finisce alle estremità periferiche del gioco politico. Chi sceglie l'uso della forza viene dissuaso con la forza, chi combatte con le parole viene combattuto con le parole. A ciascuno il suo, secondo propria misura.
391 Ma torniamo all'antagonismo da cui eravamo partiti. La scelta liberal persegue un sogno finale per il terzo millennio: lo Stato etico mondiale, ovvero una società senza confini, governata da un potere sovrano che si muove «solo» per correggere i mali del mondo, come le ingiustizie, le disparità, le violenze e le guerre locali. Utilizza cioè la forza per ragioni umanitarie, lasciando per il resto il campo al libero gioco degli individui e dell'iniziativa privata. Una specie di Gendarme buono, di Coscienza del mondo in armi, di kantismo in tenuta militare per far osservare ovunque l'imperativo categorico su alcune scelte, lasciandone indisturbate altre (da qui l'accusa di permissivismo morale).
392 Il comunitario vive invece questo sogno liberal come un incubo orwelliano, perché lo considera come l'avvento di un Potere senza volto che governa su un mondo privato delle differenze e stabilisce a sua discrezione i nuovi confini del bene e del male. Le persone sono ridotte a individui, cioè pure nudità private della loro identità e così i popoli sono ridotti a target o audience, ovvero uniforme e labile massa priva di specificità radicate. Per la prospettiva comunitaria, lo Stato etico mondiale sarebbe in realtà l'egemonia di un Questore universale nel nome del nichilismo e dello sradicamento. E a questa prospettiva viene contrapposta la valorizzazione delle comunità in cerchi concentrici, dalle più piccole alle comunità nazionali, fino alle aree omogenee per cultura, tradizione, storia, geopolitica.
393 Naturalmente non mancano gli attraversamenti di campo. Ernst Jünger, che non era certo un liberal, sognava uno Stato planetario. Invece Ralf Dahrendorf, che è certamente un liberal, difende gli Stati nazionali. Peraltro il sogno di uno Stato universale appartiene alla tradizione dell'imperium (riecheggiata nel De monarchia di Dante), mentre la nascita degli Stati nazionali coincide con la modernità e la loro difesa ideologica coincide con l'avvento dei giacobini. Ma oggi la prospettiva liberal è tendenzialmente universalista perché intreccia il tradizionale internazionalismo della sinistra con la planetarizzazione perseguita dal liberalcapitalismo. E la prospettiva comunitaria è tendenzialmente portata a difendere la realtà di un mondo multipolare, composto da più aree, più culture, più identità e più popoli.
394 Liberal o comunitari, l'antagonismo possibile: un modo per pensare l'avvenire fuori dal determinismo del Modello unico, del Pensiero unico, della storia a senso unico. Recuperare la conflittualità della politica è garanzia della libertà e del rispetto delle differenze; ma si tratta di portare la conflittualità intra moenia, cioè dentro i confini del pari rispetto e della legittimazione reciproca, e dentro le mura di una comune cittadinanza.
395 Infine, onesta avvertenza: se non si è già capito, la preferenza di chi scrive va all'opzione comunitaria. Ma il compito principale da assolvere è di portare a rigore le posizioni in campo, cercando di dare dignità teorica e compostezza civile alle parti antagoniste.Risposi che sentivo un dolore al posto contuso da quella caduta al caffè della quale s'era parlato anche quella sera stessa.
396 Feci subito un energico tentativo per liberarmi da quel dolore. Mi parve che ne sarei guarito se avessi saputo vendicarmi dell'ingiuria che m'era stata fatta. Domandai un pezzo di carta ed una matita e tentai di disegnare un individuo che veniva oppresso da un tavolino ribaltatoglisi addosso. Misi poi accanto a lui un bastone sfuggitogli di mano in seguito alla catastrofe. Nessuno riconobbe il bastone e perciò l'offesa non riuscí quale io l'avrei voluta. Perché poi si riconoscesse chi fosse quell'individuo e come fosse capitato in quella posizione, scrissi di sotto: «Guido Speier alle prese col tavolino». Del resto di quel disgraziato sotto al tavolino non si vedevano che le gambe, che avrebbero potuto somigliare a quelle di Guido se non le avessi storpiate ad arte, e lo spirito di vendetta non fosse intervenuto a peggiorare il mio disegno già tanto infantile.
397 Il dolore assillante mi fece lavorare in grande fretta. Certo giammai il mio povero organismo fu talmente pervaso dal desiderio di ferire e se avessi avuta in mano la sciabola invece di quella matita che non sapevo muovere, forse la cura sarebbe riuscita.
398 Guido rise sinceramente del mio disegno, ma poi osservò mitemente:
399 Non mi pare che il tavolino m'abbia nociuto!
400 Non gli aveva infatti nociuto ed era questa l'ingiustizia di cui mi dolevo.
401 Ada prese i due disegni di Guido e disse di voler conservarli. Io la guardai per esprimerle il mio rimprovero ed essa dovette stornare il suo sguardo dal mio. Avevo il diritto di rimproverarla perché faceva aumentare il mio dolore.
402 Trovai una difesa in Augusta. Essa volle che sul mio disegno mettessi la data del nostro fidanzamento perché voleva conservare anche lei quello sgorbio.
403 Un'onda calda di sangue inondò le mie vene a tale segno d'affetto che per la prima volta riconobbi tanto importante per me. Il dolore però non cessò e dovetti pensare che se quell'atto d'affetto mi fosse venuto da Ada, esso avrebbe provocata nelle mie vene una tale ondata di sangue che tutti i detriti accumulatisi nei miei nervi ne sarebbero stati spazzati via.
404 Quel dolore non m'abbandonò piú. Adesso, nella vecchiaia, ne soffro meno perché, quando mi coglie, lo sopporto con indulgenza: «Ah! Sei qui, prova evidente che sono stato giovine?». Ma in gioventú fu altra cosa. Io non dico che il dolore sia stato grande, per quanto talvolta m'abbia impedito il libero movimento o mi abbia tenuto desto per notti intere. Ma esso occupò buona parte della mia vita. Volevo guarirne! Perché avrei dovuto portare per tutta la vita sul mio corpo stesso lo stigma del vinto? Divenire addirittura il monumento ambulante della vittoria di Guido? Bisognava cancellare dal mio corpo quel dolore.
405 Cosí cominciarono le cure. Ma, subito dopo, l'origine rabbiosa della malattia fu dimenticata e mi fu ora persino difficile di ritrovarla. Non poteva essere altrimenti: io avevo una grande fiducia nei medici che mi curarono e credetti loro sinceramente quando attribuirono quel dolore ora al ricambio ed ora alla circolazione difettosa, poi alla tubercolosi o a varie infezioni di cui qualcuna vergognosa. Devo poi confessare che tutte le cure m'arrecarono qualche sollievo temporaneo per cui ogni volta l'eventuale nuova diagnosi sembrava confermata. Prima o poi risultava meno esatta, ma non del tutto erronea, perché da me nessuna funzione è idealmente perfetta.
406 Una volta sola ci fu un vero errore: una specie di veterinario nelle cui mani m'ero posto, s'ostinò per lungo tempo ad attaccare il mio nervo sciatico coi suoi vescicanti e finí coll'essere beffato dal mio dolore che improvvisamente, durante una seduta, saltò dall'anca alla coppa, lungi perciò da ogni connessione col nervo sciatico. Il cerusico s'arrabbiò e mi mise alla porta ed io me ne andai - me lo ricordo benissimo - niente affatto offeso, ammirato invece che il dolore al nuovo posto non avesse cambiato per nulla. Rimaneva rabbioso e irraggiungibile come quando m'aveva torturata l'anca. È strano come ogni parte del nostro corpo sappia dolere allo stesso modo.
407 Tutte le altre diagnosi vivono esattissime nel mio corpo e si battono fra di loro per il primato. Vi sono delle giornate in cui vivo per la diatesi urica ed altre in cui la diatesi è uccisa, cioè guarita, da un'infiammazione delle vene. Io ho dei cassetti interi di medicinali e sono i soli cassetti miei che tengo io stesso in ordine. Io amo le mie medicine e so che quando ne abbandono una, prima o poi vi ritornerò. Del resto non credo di aver perduto il mio tempo. Chissà da quanto tempo e di quale malattia io sarei già morto se il mio dolore in tempo non le avesse simulate tutte per indurmi a curarle prima ch'esse m'afferrassero.
408 Ma pur senza saper spiegarne l'intima natura, io so quando il mio dolore per la prima volta si formò. Proprio per quel disegno tanto migliore del mio.
409 Una goccia che fece traboccare il vaso! Io sono sicuro di non aver mai prima sentito quel dolore. Ad un medico volli spiegarne l'origine, ma non m'intese. Chissà? Forse la psico-analisi porterà alla luce tutto il rivolgimento che il mio organismo subí in quei giorni e specialmente nelle poche ore che seguirono al mio fidanzamento.
410 Non furono neppure poche, quelle ore!
411 Quando, tardi, la compagnia si sciolse, Augusta lietamente mi disse:
412 A domani!
413 L'invito mi piacque perché provava che avevo raggiunto il mio scopo e che niente era finito e tutto avrebbe continuato il giorno appresso. Essa mi guardò negli occhi e trovò i miei vivamente annuenti cosí da confortarla. Scesi quegli scalini, che non contai piú, domandandomi:
414 Chissà se l'amo?
415 È un dubbio che m'accompagnò per tutta la vita e oggidí posso pensare che l'amore accompagnato da tanto dubbio sia il vero amore.
416 Ma neppure dopo abbandonata quella casa, mi fu concesso di andar a coricarmi e raccogliere il frutto della mia attività di quella serata in un sonno lungo e ristoratore. Faceva caldo. Guido sentí il bisogno di un gelato e m'invitò ad accompagnarlo ad un caffè. S'aggrappò amichevolmente al mio braccio ed io, altrettanto amichevolmente, sostenni il suo. Egli era una persona molto importante per me e non avrei saputo rifiutargli niente. La grande stanchezza che avrebbe dovuto cacciarmi a letto, mi rendeva piú arrendevole del solito.
417 Entrammo proprio nella bottega ove il povero Tullio m'aveva infettato con la sua malattia, e ci mettemmo a sedere ad un tavolo appartato. Sulla via il mio dolore che io ancora non sapevo quale compagno fedele mi sarebbe stato, m'aveva fatto soffrire molto e, per qualche istante, mi parve si attenuasse perché mi fu concesso di sedere.
418 La compagnia di Guido fu addirittura terribile. S'informava con grande curiosità della storia dei miei amori con Augusta. Sospettava ch'io lo ingannassi? Gli dissi sfacciatamente che io di Augusta m'ero innamorato subito alla mia prima visita in casa Malfenti. Il mio dolore mi rendeva ciarliero, quasi avessi voluto gridare piú di esso. Ma parlai troppo e se Guido fosse stato piú attento si sarebbe accorto che io non ero tanto innamorato di Augusta. Parlai della cosa piú interessante nel corpo di Augusta, cioè quell'occhio sbilenco che a torto faceva credere che anche il resto non fosse al suo vero posto. Poi volli spiegare perché non mi fossi fatto avanti prima. Forse Guido era meravigliato di avermi visto capitare in quella casa all'ultimo momento per fidanzarmi. Urlai:
419 Intanto le signorine Malfenti sono abituate ad un grande lusso ed io non potevo sapere se ero al caso di addossarmi una cosa simile.
420 Mi dispiacque di aver cosí parlato anche di Ada, ma non v'era piú rimedio; era tanto difficile di isolare Augusta da Ada! Continuai abbassando la voce per sorvegliarmi meglio:
421 Dovetti perciò fare dei calcoli. Trovai che il mio denaro non bastava. Allora mi misi a studiare se potevo allargare il mio commercio.
422 Dissi poi che, per fare quei calcoli, avevo avuto bisogno di molto tempo e che perciò m'ero astenuto dal far visita ai Malfenti per cinque giorni.
423 Finalmente la lingua abbandonata a se stessa era arrivata ad un po' di sincerità. Ero vicino al pianto e, premendomi l'anca, mormorai:
424 Cinque giorni son lunghi!
425 Guido disse che si compiaceva di scoprire in me una persona tanto previdente.
426 Io osservai seccamente:
427  La persona previdente non è piú gradevole della stordita!
428 Guido rise:
429 Curioso che il previdente senta il bisogno di difendere lo stordito!
430 Poi, senz'altra transizione, mi raccontò seccamente ch'egli era in procinto di domandare la mano di Ada. M'aveva trascinato al caffè per farmi quella confessione oppure s'era seccato di aver dovuto starmi a sentire per tanto tempo a parlare di me e si procurava la rivincita?
431 Io sono quasi sicuro d'esser riuscito a dimostrare la massima sorpresa e la massima compiacenza. Ma subito dopo trovai il modo di addentarlo vigorosamente:
432 Adesso capisco perché ad Ada piacque tanto quel Bach svisato a quel modo! Era ben suonato, ma <I>gli Otto proibiscono di lordare</I>  in certi posti.
433 La botta era forte e Guido arrossí dal dolore. Fu mite nella risposta perché ora gli mancava l'appoggio di tutto il suo piccolo pubblico entusiasta.
434 Dio mio! - cominciò per guadagnar tempo. - Talvolta suonando si cede ad un capriccio. In quella stanza pochi conoscevano il Bach ed io lo presentai loro un poco modernizzato.
435 Parve soddisfatto della sua trovata, ma io ne fui soddisfatto altrettanto perché mi parve una scusa e una sommissione. Ciò bastò a mitigarmi e, del resto, per nulla al mondo avrei voluto litigare col futuro marito di Ada. Proclamai che raramente avevo sentito un dilettante che suonasse cosí bene.
436 A lui non bastò: osservò ch'egli poteva essere considerato quale un dilettante, solo perché non accettava di presentarsi come professionista.
437 Non voleva altro? Gli diedi ragione. Era evidente ch'egli non poteva essere considerato quale un dilettante.
438 Cosí fummo di nuovo buoni amici.
439 Poi, di punto in bianco, egli si mise a dir male delle donne. Restai a bocca aperta! Ora che lo conosco meglio, so ch'egli si lancia a un discorrere abbondante in qualsiasi direzione quando si crede sicuro di piacere al suo interlocutore. Io, poco prima, avevo parlato del lusso delle signorine Malfenti, ed egli ricominciò a parlare di quello per finire col dire di tutte le altre cattive qualità delle donne. La mia stanchezza m'impediva d'interromperlo e mi limitavo a continui segni d'assenso ch'erano già troppo faticosi per me. Altrimenti, certo, avrei protestato. Io sapevo ch'io avevo ogni ragione di dir male delle donne rappresentate per me da Ada, Augusta e dalla mia futura suocera; ma lui non aveva alcuna ragione di prendersela col sesso rappresentato per lui dalla sola Ada che l'amava.
440 Era ben dotto, e ad onta della mia stanchezza stetti a sentirlo con ammirazione. Molto tempo dopo scopersi ch'egli aveva fatte sue le geniali teorie del giovine suicida Weininger. Per allora subivo il peso di un secondo Bach. Mi venne persino il dubbio ch'egli volesse curarmi. Perché altrimenti avrebbe voluto convincermi che la donna non sa essere né geniale né buona? A me parve che la cura non riuscí perché somministrata da Guido.
441 Ma conservai quelle teorie e le perfezionai con la lettura del Weininger. Non guariscono però mai, ma sono una comoda compagnia quando si corre dietro alle donne.
442 Finito il suo gelato, Guido sentí il bisogno di una boccata d'aria fresca e m'indusse ad accompagnarlo ad una passeggiata verso la periferia della città.
443 Ricordo: da giorni, in città, si anelava ad un poco di pioggia da cui si sperava qualche sollievo al caldo anticipato. Io non m'ero neppure accorto di quel caldo. Quella sera il cielo aveva cominciato a coprirsi di leggere nubi bianche, di quelle da cui il popolo spera la pioggia abbondante, ma una grande luna s'avanzava nel cielo intensamente azzurro dov'era ancora limpido, una di quelle lune dalle guancie gonfie che lo stesso popolo crede capaci di mangiare le nubi. Era infatti evidente che là dov'essa toccava, scioglieva e nettava.
444 Volli interrompere il chiacchierio di Guido che mi costringeva ad un annuire continuo, una tortura, e gli descrissi il bacio nella luna scoperto dal poeta Zamboni: com'era dolce quel bacio nel centro delle nostre notti in confronto all'ingiustizia che Guido accanto a me commetteva! Parlando e scotendomi dal torpore in cui ero caduto a forza di assentire, mi parve che il mio dolore s'attenuasse. Era il premio per la mia ribellione e vi insistetti.
445 Guido dovette adattarsi di lasciare per un momento in pace le donne e guardare in alto. Ma per poco! Scoperta, in seguito alle mie indicazioni, la pallida immagine di donna nella luna, ritornò al suo argomento con uno scherzo di cui rise fortemente, ma solo lui, nella via deserta:
446 Vede tante cose quella donna! Peccato ch'essendo donna non sa ricordarle.
447 Faceva parte della sua teoria (o di quella del Weininger) che la donna non può essere geniale perché non sa ricordare.
448 Arrivammo sotto la via Belvedere. Guido disse che un po' di salita ci avrebbe fatto bene. Anche questa volta lo compiacqui. Lassú, con uno di quei movimenti che si confanno meglio ai giovanissimi ragazzi, egli si sdraiò sul muricciuolo che arginava la via da quella sottostante. Gli pareva di fare un atto di coraggio esponendosi ad una caduta di una diecina di metri. Sentii dapprima il solito ribrezzo al vederlo esposto a tanto pericolo, ma poi ricordai il sistema da me escogitato quella sera stessa, in uno slancio d'improvvisazione, per liberarmi da quell'affanno e mi misi ad augurare ferventemente ch'egli cadesse.
449 In quella posizione egli continuava a predicare contro le donne. Diceva ora che abbisognavano di giocattoli come i bambini, ma di alto prezzo. Ricordai che Ada diceva di amare molto i gioielli. Era dunque proprio di lei ch'egli parlava? Ebbi allora un'idea spaventosa! Perché non avrei fatto fare a Guido quel salto di dieci metri? Non sarebbe stato giusto di sopprimere costui che mi portava via Ada senz'amarla? In quel momento mi pareva che quando l'avessi ucciso, avrei potuto correre da Ada per averne subito il premio. Nella strana notte piena di luce, a me era parso ch'essa stesse a sentire come Guido l'infamava.
450 Debbo confessare ch'io in quel momento m'accinsi veramente ad uccidere Guido! Ero in piedi accanto a lui ch'era sdraiato sul basso muricciuolo ed esaminai freddamente come avrei dovuto afferrarlo per essere sicuro del fatto mio.
451 Poi scopersi che non avevo neppur bisogno di afferrarlo. Egli giaceva sulle proprie braccia incrociate dietro la testa, e sarebbe bastata una buona spinta improvvisa per metterlo senza rimedio fuori d'equilibrio.
452 Mi venne un'altra idea che mi parve tanto importante da poter compararla alla grande luna che s'avanzava nel cielo nettandolo: avevo accettato di fidanzarmi ad Augusta per essere sicuro di dormir bene quella notte. Come avrei potuto dormire se avessi ammazzato Guido? Quest'idea salvò me e lui. Volli subito abbandonare quella posizione nella quale sovrastavo a Guido e che mi seduceva a quell'azione. Mi piegai sulle ginocchia abbattendomi su me stesso e arrivando quasi a toccare il suolo con la mia testa:
453 Che dolore, che dolore! - urlai.
454 Spaventato, Guido balzò in piedi a domandarmi delle spiegazioni. Io continuai a lamentarmi piú mitemente senza rispondere. Sapevo perché mi lamentavo: perché avevo voluto uccidere e forse, anche, perché non avevo saputo farlo. Il dolore e il lamento scusavano tutto. Mi pareva di gridare ch'io non avevo voluto uccidere e mi pareva anche di gridare che non era colpa mia se non avevo saputo farlo. Tutto era colpa della mia malattia e del mio dolore. Invece ricordo benissimo che proprio allora il mio dolore scomparve del tutto e che il mio lamento rimase una pura commedia cui io invano cercai di dare un contenuto evocando il dolore e ricostruendolo per sentirlo e soffrirne. Ma fu uno sforzo vano perché esso non ritornò che quando volle.
455 Come al solito Guido procedeva per ipotesi. Fra altro mi domandò se non si fosse trattato dello stesso dolore prodotto da quella caduta al caffè. L'idea mi parve buona e assentii.
456 Egli mi prese per il braccio e, amorevolmente, mi fece rizzare. Poi, con ogni riguardo, sempre appoggiandomi, mi fece scendere la piccola erta. Quando fummo giú, dichiarai che mi sentivo un poco meglio e che credevo che, appoggiato a lui, avrei potuto procedere piú spedito. Cosí si andava finalmente a letto! Poi era la prima vera grande soddisfazione che quel giorno mi fosse stata accordata. Egli lavorava per me, perché quasi mi portava. Ero io che finalmente gl'imponevo il mio volere.
457 Trovammo una farmacia ancora aperta ed egli ebbe l'idea di mandarmi a letto accompagnato da un calmante. Costruí tutta una teoria sul dolore reale e sul sentimento esagerato dello stesso: un dolore si moltiplicava per l'esasperazione ch'esso stesso aveva prodotta. Con quella bottiglietta s'iniziò la mia raccolta di medicinali, e fu giusto fosse stata scelta da Guido.
458 Per dar base piú solida alla sua teoria, egli suppose ch'io avessi sofferto di quel dolore da molti giorni. Mi spiacque di non poter compiacerlo. Dichiarai che quella sera, in casa dei Malfenti, io non avevo sentito alcun dolore. Nel momento in cui m'era stata concessa la realizzazione del mio lungo sogno, evidentemente non avevo potuto soffrire.
459 E per essere sincero volli proprio essere come avevo asserito ch'io fossi e dissi piú volte a me stesso: «Io amo Augusta, io non amo Ada. Amo Augusta e questa sera arrivai alla realizzazione del mio lungo sogno».
460 Cosí procedemmo nella notte lunare.
461 Suppongo che Guido fosse affaticato dal mio peso, perché finalmente ammutolí. Mi propose però di accompagnarmi fino a letto. Rifiutai e quando mi fu concesso di chiudere la porta di casa dietro di me, diedi un sospiro di sollievo. Ma certamente anche Guido dovette emettere lo stesso sospiro.
462 Feci gli scalini della mia villa a quattro a quattro e in dieci minuti fui a letto. M'addormentai presto e, nel breve periodo che precede il sonno, non ricordai né Ada né Augusta, ma il solo Guido, cosí dolce e buono e paziente. Certo, non avevo dimenticato che poco prima avevo voluto ucciderlo, ma ciò non aveva alcun'importanza perché le cose di cui nessuno sa e che non lasciarono delle tracce, non esistono.
463 Il giorno seguente mi recai alla casa della mia sposa un po' titubante. Non ero sicuro se gl'impegni presi la sera prima avessero il valore ch'io credevo di dover conferire loro. Scopersi che l'avevano per tutti. Anche Augusta riteneva d'essersi fidanzata, anzi piú sicuramente di quanto lo credessi io.
464 Fu un fidanzamento laborioso. Io ho il senso di averlo annullato varie volte e ricostituito con grande fatica e sono sorpreso che nessuno se ne sia accorto. Mai non ebbi la certezza d'avviarmi proprio al matrimonio, ma pare che tuttavia io mi sia comportato da fidanzato abbastanza amoroso. Infatti io baciavo e stringevo al seno la sorella di Ada ogni qualvolta ne avevo la possibilità. Augusta subiva le mie aggressioni come credeva che una sposa dovesse ed io mi comportai relativamente bene, solo perché la signora Malfenti non ci lasciò soli che per brevi istanti. La mia sposa era molto meno brutta di quanto avessi creduto, e la sua piú grande bellezza la scopersi baciandola: il suo rossore! Là dove baciavo sorgeva una fiamma in mio onore ed io baciavo piú con la curiosità dello sperimentatore che col fervore dell'amante.
465 Ma il desiderio non mancò e rese un po' piú lieve quella grave epoca. Guai se Augusta e sua madre non m'avessero impedito di bruciare quella fiamma in una sola volta come io spesso ne avrei avuto il desiderio. Come si avrebbe continuato a vivere allora? Almeno cosí il mio desiderio continuò a darmi sulle scale di quella casa la stessa ansia come quando le salivo per andare alla conquista di Ada. Gli scalini dispari mi promettevano che quel giorno avrei potuto far vedere ad Augusta che cosa fosse il fidanzamento ch'essa aveva voluto. Sognavo un'azione violenta che m'avrebbe ridato tutto il sentimento della mia libertà. Non volevo mica altro io ed è ben strano che quando Augusta intese quello ch'io volevo, l'abbia interpretato quale un segno di febbre d'amore.
466 Nel mio ricordo quel periodo si divide in due fasi. Nella prima la signora Malfenti ci faceva spesso sorvegliare da Alberta o cacciava nel salotto con noi la piccola Anna con una sua maestrina. Ada non fu allora mai associata in alcun modo a noi ed io dicevo a me stesso che dovevo compiacermene, mentre invece ricordo oscuramente di aver pensato una volta che sarebbe stata una bella soddisfazione per me di poter baciare Augusta in presenza di Ada. Chissà con quale violenza l'avrei fatto.
467 La seconda fase s'iniziò quando Guido ufficialmente si fidanzò con Ada e la signora Malfenti da quella pratica donna che era, uní le due coppie nello stesso salotto perché si sorvegliassero a vicenda.
468 Della prima fase so che Augusta si diceva perfettamente soddisfatta di me. Quando non l'assaltavo, divenivo di una loquacità straordinaria. La loquacità era un mio bisogno. Me ne procurai l'opportunità figgendomi in capo l'idea che giacché dovevo sposare Augusta, dovessi anche imprenderne l'educazione. L'educavo alla dolcezza, all'affetto e sopra tutto alla fedeltà. Non ricordo esattamente la forma che davo alle mie prediche di cui taluna m'è ricordata da lei che giammai le obliò. M'ascoltava attenta e sommessa. Io, una volta, nella foga dell'insegnamento, proclamai che se essa avesse scoperto un mio tradimento, ne sarebbe conseguito il suo diritto di ripagarmi della stessa moneta. Essa, indignata, protestò che neppure col mio permesso avrebbe saputo tradirmi e che, da un mio tradimento, a lei non sarebbe risultata che la libertà di piangere.
469 Io credo che tali prediche fatte per tutt'altro scopo che di dire qualche cosa, abbiano avuta una benefica influenza sul mio matrimonio. Di sincero v'era l'effetto ch'esse ebbero sull'animo di Augusta. La sua fedeltà non fu mai messa a prova perché dei miei tradimenti essa mai seppe nulla, ma il suo affetto e la sua dolcezza restarono inalterati nei lunghi anni che passammo insieme, proprio come l'avevo indotta a promettermelo.
470 Quando Guido si promise, la seconda fase del mio fidanzamento s'iniziò con un mio proponimento che fu espresso cosí: «Eccomi ben guarito del mio amore per Ada!». Fino ad allora avevo creduto che il rossore di Augusta fosse bastato per guarirmi, ma si vede che non si è mai guariti abbastanza! Il ricordo di quel rossore mi fece pensare ch'esso oramai ci sarebbe stato anche fra Guido e Ada. Questo, molto meglio di quell'altro, doveva abolire ogni mio desiderio.
471 È della prima fase il desiderio di violare Augusta. Nella seconda fui molto meno eccitato. La signora Malfenti non aveva certo sbagliato organizzando cosí la nostra sorveglianza con tanto piccolo suo disturbo.
472 Mi ricordo che una volta scherzando mi misi a baciare Augusta. Invece di scherzare con me, Guido si mise a sua volta a baciare Ada. Mi parve poco delicato da parte sua, perché egli non baciava castamente come avevo fatto io per riguardo a loro, ma baciava Ada proprio nella bocca che addirittura suggeva. Sono certo che in quell'epoca io m'ero già assueffatto a considerare Ada quale una sorella, ma non ero preparato a vederne far uso a quel modo. Dubito anche che ad un vero fratello piacerebbe di veder manipolare cosí la sorella.
473 Perciò, in presenza di Guido, io non baciai mai piú Augusta. Invece Guido, in mia presenza, tentò un'altra volta di attirare a sé Ada, ma fu dessa che se ne schermí ed egli non ripeté piú il tentativo.
474 Molto confusamente mi ricordo delle tante e tante sere che passammo insieme. La scena che si ripeté all'infinito, s'impresse nella mia mente cosí: tutt'e quattro eravamo seduti intorno al fine tavolo veneziano su cui ardeva una grande lampada a petrolio coperta da uno schermo di stoffa verde che metteva tutto nell'ombra, meno i lavori di ricamo cui le due fanciulle attendevano, Ada su un fazzoletto di seta che teneva libero in mano, Augusta su un piccolo telaio rotondo.
475 Vedo Guido perorare e dev'essere successo di spesso che sia stato io solo a dargli ragione. Mi ricordo ancora della testa di capelli neri lievemente ricciuti di Ada, rilevati da un effetto strano che vi produceva la luce gialla e verde.
476 Si discusse di quella luce e anche del colore vero di quei capelli. Guido, che sapeva anche dipingere, ci spiegò come si dovesse analizzare un colore. Neppure questo suo insegnamento non dimenticai piú e ancora oggidí, quando voglio intendere meglio il colore di un paesaggio, socchiudo gli occhi finché non spariscano molte linee e non si vedano che le sole luci che anch'esse s'abbrunano nel solo e vero colore. Però, quando mi dedico ad un'analisi simile, sulla mia retina, subito dopo le immagini reali, quasi una reazione mia fisica, riappare la luce gialla e verde e i capelli bruni sui quali per la prima volta educai il mio occhio.
477 Non so dimenticare una sera che fra tutte fu rilevata da un'espressione di gelosia di Augusta e subito dopo anche da una mia riprovevole indiscrezione. Per farci uno scherzo, Guido e Ada erano andati a sedere lontano da noi, dall'altra parte del salotto, al tavolo Luigi XIV. Cosí io ebbi presto un dolore al collo che torcevo per parlare con loro. Augusta mi disse:
478 Lasciali! Là si fa veramente all'amore.
479 Ed io, con una grande inerzia di pensiero, le dissi a bassa voce che non doveva crederlo perché Guido non amava le donne. Cosí m'era sembrato di scusarmi di essermi ingerito nei discorsi dei due amanti. Era invece una malvagia indiscrezione quella di riferire ad Augusta i discorsi sulle donne cui Guido s'abbandonava in mia compagnia, ma giammai in presenza di alcun altro della famiglia delle nostre spose. Il ricordo di quelle mie parole m'amareggiò per varii giorni, mentre posso dire che il ricordo di aver voluto uccidere Guido non m'aveva turbato neppure per un'ora. Ma uccidere e sia pure a tradimento, è cosa piú virile che danneggiare un amico riferendo una sua confidenza.
480 Già allora Augusta aveva torto di essere gelosa di Ada. Non era per vedere Ada ch'io a quel modo torcevo il mio collo. Guido, con la sua loquacità, m'aiutava a trascorrere quel lungo tempo. Io gli volevo già bene e passavo una parte delle mie giornate con lui. Ero legato a lui anche dalla gratitudine che gli portavo per la considerazione in cui egli mi teneva e che comunicava agli altri. Persino Ada stava ora a sentirmi attentamente quando parlavo.
481 Ogni sera aspettavo con una certa impazienza il suono del <I>gong</I>  che ci chiamava a cena, e di quelle cene ricordo principalmente la mia perenne indigestione. Mangiavo troppo per un bisogno di tenermi attivo. A cena abbondavo di parole affettuose per Augusta; proprio quanto la mia bocca piena me lo permetteva, e i genitori suoi potevano aver solo la brutta impressione che il grande mio affetto fosse diminuito dalla mia bestiale voracità. Si sorpresero che al mio ritorno dal viaggio di nozze non avessi riportato con me tanto appetito. Sparí quando non si esigette piú da me di dimostrare una passione che non sentivo. Non è permesso di farsi veder freddo con la sposa dai suoi genitori nel momento in cui ci si accinge di andar a letto con essa! Augusta ricorda specialmente le affettuose parole che le mormoravo a quel tavolo.
482 Fra boccone e boccone devo averne inventate di magnifiche e resto stupito, quando mi vengono ricordate, perché non mi sembrerebbero mie.
483 Lo stesso mio suocero, Giovanni il furbo, si lasciò ingannare e, finché visse, quando voleva dare un esempio di una grande passione amorosa, citava la mia per sua figlia, cioè per Augusta. Ne sorrideva beato da quel buon padre ch'egli era, ma gliene derivava un aumento di disprezzo per me, perché secondo lui, non era un vero uomo colui che metteva tutto il proprio destino nelle mani di una donna e che sopra tutto non s'accorgeva che all'infuori della propria v'erano a questo mondo anche delle altre donne. Da ciò si vede che non sempre fui giudicato con giustizia.
484 Mia suocera, invece, non credette nel mio amore neppure quando la stessa Augusta vi si adagiò piena di fiducia.
485 Per lunghi anni essa mi squadrò con occhio diffidente, dubbiosa del destino della figliuola sua prediletta. Anche per questa ragione io sono convinto ch'essa deve avermi guidato nei giorni che mi condussero al fidanzamento. Era impossibile d'ingannare anche lei che deve aver conosciuto il mio animo meglio di me stesso.
486 Venne finalmente il giorno del mio matrimonio e proprio quel giorno ebbi un'ultima esitazione. Avrei dovuto essere dalla sposa alle otto del mattino, e invece alle sette e tre quarti mi trovavo ancora a letto fumando rabbiosamente e guardando la mia finestra su cui brillava, irridendo, il primo sole che durante quell'inverno fosse apparso. Meditavo di abbandonare Augusta! Diveniva evidente l'assurdità del mio matrimonio ora che non m'importava piú di restar attaccato ad Ada. Non sarebbero mica avvenute di grandi cose se io non mi fossi presentato all'appuntamento! Eppoi: Augusta era stata una sposa amabile, ma non si poteva mica sapere come si sarebbe comportata la dimane delle nozze. E se subito m'avesse dato della bestia perché m'ero lasciato prendere a quel modo?
487 Per fortuna venne Guido, ed io, nonché resistere, mi scusai del mio ritardo asserendo di aver creduto che fosse stata stabilita un'altra ora per le nozze. Invece di rimproverarmi, Guido si mise a raccontare di sé e delle tante volte ch'egli, per distrazione, aveva mancato a degli appuntamenti. Anche in fatto di distrazione egli voleva essere superiore a me e dovetti non dargli altro ascolto per arrivare a uscir di casa. Cosí avvenne che andai al matrimonio a passo di corsa.
488 Arrivai tuttavia molto tardi. Nessuno mi rimproverò e tutti meno la sposa s'accontentarono di certe spiegazioni che Guido diede in vece mia. Augusta era tanto pallida che persino le sue labbra erano livide. Se anche non potevo dire di amarla, pure è certo che non avrei voluto farle del male. Tentai di riparare e commisi la bestialità d'attribuire al mio ritardo ben tre cause. Erano troppe e raccontavano con tanta chiarezza quello ch'io avevo meditato là nel mio letto, guardando il sole invernale, che si dovette ritardare la nostra partenza per la chiesa onde dar tempo ad Augusta di rimettersi.
489 All'altare dissi di sí distrattamente perché nella mia viva compassione per Augusta stavo escogitando una quarta spiegazione al mio ritardo e mi pareva la migliore di tutte.
490 Invece, quando uscimmo dalla chiesa, m'accorsi che Augusta aveva ricuperati tutti i suoi colori. Ne ebbi una certa stizza perché quel mio sí non avrebbe mica dovuto bastare a rassicurarla del mio amore. E mi preparavo a trattarla molto rudemente se si fosse rimessa da tanto da darmi della bestia perché m'ero lasciato prendere a quel modo. Invece, a casa sua, approfittò di un momento in cui ci lasciarono soli, per dirmi piangendo:
491 Non dimenticherò mai che, pur non amandomi, mi sposasti.
492 Io non protestai perché la cosa era stata tanto evidente che non si poteva. Ma, pieno di compassione, l'abbracciai.
493 Poi di tutto questo non si parlò piú fra me ed Augusta perché il matrimonio è una cosa ben piú semplice del fidanzamento. Una volta sposati non si discute piú d'amore e, quando si sente il bisogno di dirne, l'animalità interviene presto a rifare il silenzio. Ora tale animalità può essere divenuta tanto umana da complicarsi e falsificarsi ed avviene che, chinandosi su una capigliatura femminile, si faccia anche lo sforzo di evocarvi una luce che non c'è. Si chiudono gli occhi e la donna diventa un'altra per ridivenire lei quando la si abbandona. A lei s'indirizza tutta la gratitudine e maggiore ancora se lo sforzo riuscí. È per questo che se io avessi da nascere un'altra volta (madre natura è capace di tutto!) accetterei di sposare Augusta, ma mai di promettermi con lei.
494 Alla stazione Ada mi porse la guancia al bacio fraterno. Io la vidi solo allora, frastornato com'ero dalla tanta gente ch'era venuta ad accompagnarci e subito pensai: «Sei proprio tu che mi cacciasti in questi panni!» Avvicinai le mie labbra alla sua guancia vellutata badando di non sfiorarla neppure. Fu la prima soddisfazione di quel giorno, perché per un istante sentii quale vantaggio mi derivasse dal mio matrimonio: m'ero vendicato rifiutando d'approfittare dell'unica occasione che m'era stata offerta di baciare Ada! Poi, mentre il treno correva, seduto accanto ad Augusta, dubitai di non aver fatto bene. Temevo ne fosse compromessa la mia amicizia con Guido. Però soffrivo di piú quando pensavo che forse Ada non s'era neppure accorta che non avevo baciata la guancia che mi aveva offerta.
495 Essa se ne era accorta, ma io non lo seppi che quando, a sua volta, molti mesi dopo, partí con Guido da quella stessa stazione. Tutti essa baciò. A me solo offerse con grande cordialità la mano. Io gliela strinsi freddamente. La sua vendetta arrivava proprio in ritardo perché le circostanze erano del tutto mutate. Dal ritorno dal mio viaggio di nozze avevamo avuti dei rapporti fraterni e non si poteva spiegare perché mi avesse escluso dal bacio.
496 Moglie e amante.Nella mia vita ci furono varii periodi in cui credetti di essere avviato alla salute e alla felicità. Mai però tale fede fu tanto forte come nel tempo in cui durò il mio viaggio di nozze eppoi qualche settimana dopo il nostro ritorno a casa. Cominciò con una scoperta che mi stupí: io amavo Augusta com'essa amava me. Dapprima diffidente, godevo intanto di una giornata e m'aspettavo che la seguente fosse tutt'altra cosa. Ma una seguiva e somigliava all'altra, luminosa, tutta gentilezza di Augusta ed anche - ciò ch'era la sorpresa - mia. Ogni mattina ritrovavo in lei lo stesso commosso affetto e in me la stessa riconoscenza che, se non era amore, vi somigliava molto. Chi avrebbe potuto prevederlo quando avevo zoppicato da Ada ad Alberta per arrivare ad Augusta? Scoprivo di essere stato non un bestione cieco diretto da altri, ma un uomo abilissimo. E vedendomi stupito, Augusta mi diceva:
497 Ma perché ti sorprendi? Non sapevi che il matrimonio è fatto cosí? Lo sapevo pur io che sono tanto piú ignorante di te!
498 Non so piú se dopo o prima dell'affetto, nel mio animo si formò una speranza, la grande speranza di poter finire col somigliare ad Augusta ch'era la salute personificata. Durante il fidanzamento io non avevo neppur intravvista quella salute, perché tutto immerso a studiare me in primo luogo eppoi Ada e Guido. La lampada a petrolio in quel salotto non era mai arrivata ad illuminare gli scarsi capelli di Augusta.
499 Altro che il suo rossore! Quando questo sparve con la semplicità con cui i colori dell'aurora spariscono alla luce diretta del sole, Augusta batté sicura la via per cui erano passate le sue sorelle su questa terra, quelle sorelle che possono trovare tutto nella legge e nell'ordine o che altrimenti a tutto rinunziano. Per quanto la sapessi mal fondata perché basata su di me, io amavo, io adoravo quella sicurezza. Di fronte ad essa io dovevo comportarmi almeno con la modestia che usavo quando si trattava di spiritismo. Questo poteva essere e poteva perciò esistere anche la fede nella vita.
500 Però mi sbalordiva; da ogni sua parola, da ogni suo atto risultava che in fondo essa credeva la vita eterna. Non che la dicessi tale: si sorprese anzi che una volta io, cui gli errori ripugnavano prima che non avessi amati i suoi, avessi sentito il bisogno di ricordargliene la brevità. Macché! Essa sapeva che tutti dovevano morire, ma ciò non toglieva che oramai ch'eravamo sposati, si sarebbe rimasti insieme, insieme, insieme. Essa dunque ignorava che quando a questo mondo ci si univa, ciò avveniva per un periodo tanto breve, breve, breve, che non s'intendeva come si fosse arrivati a darsi del tu dopo di non essersi conosciuti per un tempo infinito e pronti a non rivedersi mai piú per un altro infinito tempo. Compresi finalmente che cosa fosse la perfetta salute umana quando indovinai che il presente per lei era una verità tangibile in cui si poteva segregarsi e starci caldi. Cercai di esservi ammesso e tentai di soggiornarvi risoluto di non deridere me e lei, perché questo conato non poteva essere altro che la mia malattia ed io dovevo almeno guardarmi dall'infettare chi a me s'era confidato.
501 Anche perciò, nello sforzo di proteggere lei, seppi per qualche tempo movermi come un uomo sano.
502 Essa sapeva tutte le cose che fanno disperare, ma in mano sua queste cose cambiavano di natura. Se anche la terra girava non occorreva mica avere il mal di mare! Tutt'altro! La terra girava, ma tutte le altre cose restavano al loro posto. E queste cose immobili avevano un'importanza enorme: l'anello di matrimonio, tutte le gemme e i vestiti, il verde, il nero, quello da passeggio che andava in armadio quando si arrivava a casa e quello di sera che in nessun caso si avrebbe potuto indossare di giorno, né quando io non m'adattavo di mettermi in marsina. E le ore dei pasti erano tenute rigidamente e anche quelle del sonno. Esistevano, quelle ore, e si trovavano sempre al loro posto.
503 Di domenica essa andava a Messa ed io ve l'accompagnai talvolta per vedere come sopportasse l'immagine del dolore e della morte. Per lei non c'era, e quella visita le infondeva serenità per tutta la settimana. Vi andava anche in certi giorni festivi ch'essa sapeva a mente. Niente di piú, mentre se io fossi stato religioso mi sarei garantita la beatitudine stando in chiesa tutto il giorno.
504 C'erano un mondo di autorità anche quaggiú che la rassicuravano. Intanto quella austriaca o italiana che provvedeva alla sicurezza sulle vie e nelle case ed io feci sempre del mio meglio per associarmi anche a quel suo rispetto. Poi v'erano i medici, quelli che avevano fatto tutti gli studii regolari per salvarci quando - Dio non voglia - ci avesse a toccare qualche malattia. Io ne usavo ogni giorno di quell'autorità: lei, invece, mai. Ma perciò io sapevo il mio atroce destino quando la malattia mortale m'avesse raggiunto, mentre lei credeva che anche allora, appoggiata solidamente lassú e quaggiú, per lei vi sarebbe stata la salvezza.
505 Io sto analizzando la sua salute, ma non ci riesco perché m'accorgo che, analizzandola, la converto in malattia. E, scrivendone, comincio a dubitare se quella salute non avesse avuto bisogno di cura o d'istruzione per guarire. Ma vivendole accanto per tanti anni, mai ebbi tale dubbio.
506 Quale importanza m'era attribuita in quel suo piccolo mondo! Dovevo dire la mia volontà ad ogni proposito, per la scelta dei cibi e delle vesti, delle compagnie e delle letture. Ero costretto ad una grande attività che non mi seccava. Stavo collaborando alla costruzione di una famiglia patriarcale e diventavo io stesso il patriarca che avevo odiato e che ora m'appariva quale il segnacolo della salute. È tutt'altra cosa essere il patriarca o dover venerare un altro che s'arroghi tale dignità. Io volevo la salute per me a costo d'appioppare ai non patriarchi la malattia, e, specialmente durante il viaggio, assunsi talvolta volentieri l'atteggiamento di statua equestre.
507 Ma già in viaggio non mi fu sempre facile l'imitazione che m'ero proposta. Augusta voleva veder tutto come se si fosse trovata in un viaggio d'istruzione. Non bastava mica essere stati a palazzo Pitti, ma bisognava passare per tutte quelle innumerevoli sale, fermandosi almeno per qualche istante dinanzi ad ogni opera d'arte.
508 Io rifiutai d'abbandonare la prima sala e non vidi altro, addossandomi la sola fatica di trovare dei pretesti alla mia infingardaggine. Passai una mezza giornata dinanzi ai ritratti dei fondatori di casa Medici e scopersi che somigliavano a Carnegie e Vanderbilt. Meraviglioso! Eppure erano della mia razza! Augusta non divideva la mia meraviglia. Sapeva che cosa fossero i <I>Yankees</I>, ma non ancora bene chi fossi io.
509 Qui la sua salute non la vinse ed essa dovette rinunziare ai musei. Le raccontai che una volta al Louvre, m'imbizzarrii talmente in mezzo a tante opere d'arte, che fui in procinto di mandare in pezzi la Venere. Rassegnata, Augusta disse:
510 Meno male che i musei si incontrano in viaggio di nozze eppoi mai piú!
511 Infatti nella vita manca la monotonia dei musei. Passano i giorni capaci di cornice, ma sono ricchi di suoni che frastornano eppoi oltre che di linee e di colori anche di vera luce, di quella che scotta e perciò non annoia.
512 La salute spinge all'attività e ad addossarsi un mondo di seccature. Chiusi i musei, cominciarono gli acquisti. Essa, che non vi aveva mai abitato, conosceva la nostra villa meglio di me e sapeva che in una stanza mancava uno specchio, in un'altra un tappeto e che in una terza v'era il posto per una statuina. Comperò i mobili di un intero salotto e, da ogni città in cui soggiornammo, fu organizzata almeno una spedizione. A me pareva che sarebbe stato piú opportuno e meno fastidioso di fare tutti quegli acquisti a Trieste. Ecco che dovevamo pensare alla spedizione, all'assicurazione e alle operazioni doganali.
513 Ma tu non sai che tutte le merci devono viaggiare? Non sei un negoziante, tu? - E rise.
514 Aveva quasi ragione. Obbiettai:
515 Le merci si fanno viaggiare per vendere e guadagnare! Mancando quello scopo si lasciano tranquille e si sta tranquilli!
516 Ma l'intraprendenza era una delle cose che in lei piú amavo. Era deliziosa quell'intraprendenza cosí ingenua! Ingenua perché bisogna ignorare la storia del mondo per poter credere di aver fatto un buon affare col solo acquisto di un oggetto: è alla vendita che si giudica l'accortezza dell'acquisto.
517 Credevo di trovarmi in piena convalescenza. Le mie lesioni s'erano fatte meno velenose. Fu da allora che l'atteggiamento mio immutabile fu di lietezza. Era come un impegno che in quei giorni indimenticabili avessi preso con Augusta e fu l'unica fede che non violai che per brevi istanti, quando cioè la vita rise piú forte di me. La nostra fu e rimase una relazione sorridente perché io sorrisi sempre di lei, che credevo non sapesse e lei di me, cui attribuiva molta scienza e molti errori ch'essa - cosí si lusingava - avrebbe corretti. Io rimasi apparentemente lieto anche quando la malattia mi riprese intero. Lieto come se il mio dolore fosse stato sentito da me quale un solletico.
518 Nel lungo cammino traverso l'Italia, ad onta della mia nuova salute, non andai immune da molte sofferenze. Eravamo partiti senza lettere di raccomandazione e, spessissimo, a me parve che molti degl'ignoti fra cui ci movevamo, mi fossero nemici. Era una paura ridicola, ma non sapevo vincerla.
519 Potevo essere assaltato, insultato e sopra tutto calunniato, e chi avrebbe potuto proteggermi?
520 Ci fu anche una vera crisi di questa paura della quale per fortuna nessuno, neppur Augusta, s'accorse. Usavo prendere quasi tutti i giornali che m'erano offerti sulla via. Fermatomi un giorno davanti al banco di un giornalaio, mi venne il dubbio, ch'egli, per odio, avrebbe potuto facilmente farmi arrestare come un ladro avendo io preso da lui un solo giornale e tenendone molti, sotto il braccio, comperati altrove e neppure aperti. Corsi via seguito da Augusta a cui non dissi la ragione della mia fretta.
521 Mi legai d'amicizia con un vetturino e un cicerone in compagnia dei quali ero almeno sicuro di non poter essere accusato di furti ridicoli.
522 Fra me e il vetturino c'era qualche evidente punto di contatto. Egli amava molto i vini dei Castelli e mi raccontò che ad ogni tratto gli si gonfiavano i piedi. Andava allora all'ospedale e, guarito, ne veniva congedato con molte raccomandazioni di rinunziare al vino. Egli allora faceva un proposito che diceva ferreo perché, per materializzarlo, lo accompagnava con un nodo ch'egli allacciava alla catena di metallo del suo orologio. Ma quando io lo conobbi la sua catena gli pendeva sul panciotto, senza nodo. Lo invitai di venir a stare con me a Trieste. Gli descrissi il sapore del nostro vino, tanto differente da quello del suo, per assicurarlo dell'esito della drastica cura. Non ne volle sapere e rifiutò con una faccia in cui v'era già stampata la nostalgia.
523 Col cicerone mi legai perché mi parve fosse superiore ai suoi colleghi. Non è difficile sapere di storia molto piú di me, ma anche Augusta con la sua esattezza e col suo <I>Baedeker</I>  verificò l'esattezza di molte sue indicazioni. Intanto era giovine e si andava di corsa traverso i viali seminati di statue.
524 Quando perdetti quei due amici, abbandonai Roma. Il vetturino avendo avuto da me tanto denaro, mi fece vedere come il vino gli attaccasse qualche volta anche la testa e ci gettò contro una solidissima antica costruzione Romana. Il cicerone poi si pensò un giorno di asserire che gli antichi Romani conoscevano benissimo la forza elettrica e ne facessero largo uso. Declamò anche dei versi latini che dovevano farne fede.
525 Ma mi colse allora un'altra piccola malattia da cui non dovevo piú guarire. Una cosa da niente: la paura d'invecchiare e sopra tutto la paura di morire. Io credo abbia avuto origine da una speciale forma di gelosia. L'invecchiamento mi faceva paura solo perché m'avvicinava alla morte. Finché ero vivo, certamente Augusta non m'avrebbe tradito, ma mi figuravo che non appena morto e sepolto, dopo di aver provveduto acché la mia tomba fosse tenuta in pieno ordine e mi fossero dette le Messe necessarie, subito essa si sarebbe guardata d'intorno per darmi il successore ch'essa avrebbe circondato del medesimo mondo sano e regolato che ora beava me. Non poteva mica morire la sua bella salute perché ero morto io. Avevo una tale fede in quella salute che mi pareva non potesse perire che sfracellata sotto un intero treno in corsa.
526 Mi ricordo che una sera, a Venezia, si passava in gondola per uno di quei canali dal silenzio profondo ad ogni tratto interrotto dalla luce e dal rumore di una via che su di esso improvvisamente s'apre.
527 Augusta, come sempre, guardava le cose e accuratamente le registrava: un giardino verde e fresco che sorgeva da una base sucida lasciata all'aria dall'acqua che s'era ritirata; un campanile che si rifletteva nell'acqua torbida; una viuzza lunga e oscura con in fondo un fiume di luce e di gente. Io, invece, nell'oscurità, sentivo, con pieno sconforto, me stesso. Le dissi del tempo che andava via e che presto essa avrebbe rifatto quel viaggio di nozze con un altro. Io ne ero tanto sicuro che mi pareva di dirle una storia già avvenuta. E mi parve fuori di posto ch'essa si mettesse a piangere per negare la verità di quella storia. Forse m'aveva capito male e credeva io le avessi attribuita l'intenzione di uccidermi. Tutt'altro! Per spiegarmi meglio le descrissi un mio eventuale modo di morire: le mie gambe, nelle quali la circolazione era certamente già povera, si sarebbero incancrenite e la cancrena dilatata, dilatata, sarebbe giunta a toccare un organo qualunque, indispensabile per poter tener aperti gli occhi. Allora li avrei chiusi, e addio patriarca! Sarebbe stato necessario stamparne un altro.
528 Essa continuò a singhiozzare e a me quel suo pianto, nella tristezza enorme di quel canale, parve molto importante. Era forse provocato dalla disperazione per la visione esatta di quella sua salute atroce? Allora tutta l'umanità avrebbe singhiozzato in quel pianto. Poi, invece, seppi ch'essa neppur sapeva come fosse fatta la salute. La salute non analizza se stessa e neppur si guarda nello specchio. Solo noi malati sappiamo qualche cosa di noi stessi.
529 Fu allora ch'essa mi raccontò di avermi amato prima di avermi conosciuto. M'aveva amato dacché aveva sentito il mio nome, presentato da suo padre in questa forma: Zeno Cosini, un ingenuo, che faceva tanto d'occhi quando sentiva parlare di qualunque accorgimento commerciale e s'affrettava a prenderne nota in un libro di comandamenti, che però smarriva. E se io non m'ero accorto della sua confusione al nostro primo incontro, ciò doveva far credere che fossi stato confuso anch'io.
530 Mi ricordai che al vedere Augusta ero stato distratto dalla sua bruttezza visto che m'ero atteso di trovare in quella casa le quattro fanciulle dall'iniziale in a tutte bellissime. Apprendevo ora ch'essa m'amava da molto tempo, ma che cosa provava ciò? Non le diedi la soddisfazione di ricredermi. Quando fossi stato morto, essa ne avrebbe preso un altro. Mitigato il pianto, essa s'appoggiò ancora meglio a me e, subito ridendo, mi domandò:
531 Dove troverei il tuo successore? Non vedi come sono brutta?
532 Infatti, probabilmente, mi sarebbe stato concesso qualche tempo di putrefazione tranquilla.
533 Ma la paura d'invecchiare non mi lasciò piú, sempre per la paura di consegnare ad altri mia moglie. Non s'attenuò la paura quando la tradii e non s'accrebbe neppure per il pensiero di perdere nello stesso modo l'amante. Era tutt'altra cosa, che non aveva niente a che fare con l'altra. Quando la paura di morire m'assillava, mi rivolgevo ad Augusta per averne conforto come quei bambini che porgono al bacio della mamma la manina ferita.
534 Essa trovava sempre delle nuove parole per confortarmi. In viaggio di nozze m'attribuiva ancora trent'anni di gioventú ed oggidí altrettanti. Io invece sapevo che già le settimane di gioia del viaggio di nozze m'avevano sensibilmente accostato alle smorfie orribili dell'agonia. Augusta poteva dire quello che voleva, il conto era presto fatto: ogni settimana io mi vi accostavo di una settimana.
535 Quando m'accorsi di esser colto troppo spesso dallo stesso dolore, evitai di stancarla col dirle sempre le stesse cose e, per avvertirla del mio bisogno di conforto, bastò mormorassi: «Povero Cosini!». Ella sapeva allora esattamente cosa mi turbava e accorreva a coprirmi del suo grande affetto. Cosí riuscii ad avere il suo conforto anche quand'ebbi tutt'altri dolori. Un giorno, ammalato dal dolore di averla tradita, mormorai per svista: «Povero Cosini!». Ne ebbi gran vantaggio perché anche allora il suo conforto mi fu prezioso.
536 Ritornato dal viaggio di nozze, ebbi la sorpresa di non aver mai abitata una casa tanto comoda e calda. Augusta v'introdusse tutte le comodità che aveva avute nella propria, ma anche molte altre ch'essa stessa inventò. La stanza da bagno, che a memoria d'uomo era stata sempre in fondo a un corridoio a mezzo chilometro dalla mia stanza da letto, si accostò alla nostra e fu fornita di un numero maggiore di getti d'acqua. Poi una stanzuccia accanto al tinello fu convertita in stanza da caffè. Imbottita di tappeti e addobbata da grandi poltrone in pelle, vi soggiornavamo ogni giorno per un'oretta dopo colazione. Contro mia voglia, vi era tutto il necessario per fumare. Anche il mio piccolo studio, per quanto io lo difendessi, subí delle modificazioni. Io temevo che i mutamenti me lo rendessero odioso e invece subito m'accorsi che solo allora era possibile viverci. Essa dispose la sua illuminazione in modo che potevo leggere seduto al tavolo, sdraiato sulla poltrona o coricato sul sofà. Persino per il violino fu provveduto un leggio con la sua brava lampadina che illuminava la musica senza ferire gli occhi. Anche colà, e contro mia voglia, fui accompagnato da tutti gli ordigni necessarii per fumare tranquillamente.
537 Perciò in casa si costruiva molto e c'era qualche disordine che diminuiva la nostra quiete. Per lei, che lavorava per l'eternità, il breve incomodo poteva non importare, ma per me la cosa era ben diversa. Mi opposi energicamente quando le venne il desiderio d'impiantare nel nostro giardino una piccola lavanderia che implicava addirittura la costruzione di una casuccia. Augusta asseriva che la lavanderia in casa era una garanzia della salute dei <I>bébés</I>. Ma intanto i <I>bébés</I>  non c'erano ed io non vedevo alcuna necessità di lasciarmi incomodare da loro prima ancora che arrivassero. Ella invece portava nella mia vecchia casa un istinto che veniva dall'aria aperta, e, in amore, somigliava alla rondinella che subito pensa al nido.
538 Ma anch'io facevo all'amore e portavo a casa fiori e gemme. La mia vita fu del tutto mutata dal mio matrimonio. Rinunziai, dopo un debole tentativo di resistenza, a disporre a mio piacere del mio tempo e m'acconciai al piú rigido orario.
539 Sotto questo riguardo la mia educazione ebbe un esito splendido. Un giorno, subito dopo il nostro viaggio di nozze, mi lasciai innocentemente trattenere dall'andar a casa a colazione e, dopo di aver mangiato qualche cosa in un <I>bar</I>, restai fuori fino alla sera. Rientrato a notte fatta, trovai che Augusta non aveva fatto colazione ed era disfatta dalla fame. Non mi fece alcun rimprovero, ma non si lasciò convincere d'aver fatto male. Dolcemente, ma risoluta, dichiarò che se non fosse stata avvisata prima, m'avrebbe atteso per la colazione fino all'ora del pranzo. Non c'era da scherzare! Un'altra volta mi lasciai indurre da un amico a restar fuori di casa fino alle due di notte. Trovai Augusta che m'aspettava e che batteva i denti dal freddo avendo trascurata la stufa. Ne seguí anche una sua lieve indisposizione che rese indimenticabile la lezione inflittami.
540 Un giorno volli farle un altro grande regalo: lavorare! Essa lo desiderava ed io stesso pensavo che il lavoro sarebbe stato utile per la mia salute. Si capisce che è meno malato chi ha poco tempo per esserlo. Andai al lavoro e, se non vi restai, non fu davvero colpa mia. Vi andai coi migliori propositi e con vera umiltà. Non reclamai di partecipare alla direzione degli affari e domandai invece di tenere intanto il libro mastro. Davanti al grosso libro in cui le scritturazioni erano disposte con la regolarità di strade e case, mi sentii pieno di rispetto e cominciai a scrivere con mano tremante.
541 Il figliuolo dell'Olivi, un giovinotto sobriamente elegante, occhialuto, dotto di tutte le scienze commerciali, assunse la mia istruzione e di lui davvero non ho da lagnarmi. Mi diede qualche seccatura con la sua scienza economica e la teoria della domanda e dell'offerta che a me pareva piú evidente di quanto egli non volesse ammettere. Ma si vedeva in lui un certo rispetto per il padrone, ed io gliene ero tanto piú grato in quanto non era ammissibile che l'avesse appreso da suo padre. Il rispetto della proprietà doveva far parte della sua scienza economica. Non mi rimproverò giammai gli errori di registrazione che spesso facevo; solo era incline ad attribuirli ad ignoranza e mi dava delle spiegazioni che veramente erano superflue.
542 Il male si è che a forza di guardare gli affari, mi venne la voglia di farne. Nel libro, con grande chiarezza, arrivai a raffigurare la mia tasca e quando registravo un importo nel «dare» dei clienti mi pareva di tener in mano invece della penna il bastoncino del <I>croupier</I>  che raccoglie i denari sparsi sul tavolo da giuoco.
543 Il giovine Olivi mi faceva anche vedere la posta che arrivava ed io la leggevo con attenzione e - devo dirlo - in principio con la speranza d'intenderla meglio degli altri. Un'offerta comunissima conquistò un giorno la mia attenzione appassionata. Anche prima di leggerla sentii moversi nel mio petto qualche cosa che subito riconobbi come l'oscuro presentimento che talvolta veniva a trovarmi al tavolo da giuoco. È difficile descrivere tale presentimento. Esso consiste in una certa dilatazione dei polmoni per cui si respira con voluttà l'aria per quanto sia affumicata.
544 Ma poi c'è di piú: sapete subito che quando avrete raddoppiata la posta starete ancora meglio. Però ci vuole della pratica per intendere tutto questo. Bisogna essersi allontanati dal tavolo da giuoco con le tasche vuote e il dolore di averlo trascurato; allora non sfugge piú. E quando lo si ha trascurato, non c'è piú salvezza per quel giorno perché le carte si vendicano. Però al tavolo verde è assai piú perdonabile di non averlo sentito che dinanzi al tranquillo libro mastro, ed infatti io lo percepii chiaramente, mentre gridava in me: «Compera subito quella frutta secca!».
545 Ne parlai con tutta mitezza all'Olivi, naturalmente senza accennare della mia ispirazione. L'Olivi rispose che quegli affari non li faceva che per conto di terzi quando poteva realizzare un piccolo beneficio. Cosí egli eliminava dai miei affari la possibilità dell'ispirazione e la riservava ai terzi.
546 La notte rafforzò la mia convinzione: il presentimento era dunque in me. Respiravo tanto bene da non poter dormire. Augusta sentí la mia inquietudine e dovetti dirgliene la ragione. Essa ebbe subito la mia stessa ispirazione e nel sonno arrivò a mormorare
547 Non sei forse il padrone?
548 Vero è che alla mattina, prima che uscissi, mi disse impensierita:
549 A te non conviene d'indispettire l'Olivi. Vuoi che ne parli al babbo?
550 Non lo volli perché sapevo che anche Giovanni dava assai poco peso alle ispirazioni.
551 Arrivai all'ufficio ben deciso di battermi per la mia idea anche per vendicarmi dell'insonnia sofferta. La battaglia durò fino a mezzodí quando spirava il termine utile per accettare l'offerta. L'Olivi restò irremovibile e mi saldò con la solita osservazione:
552 Lei vuole forse diminuire le facoltà attribuitemi dal defunto suo padre?
553 Risentito, ritornai per il momento al mio mastro, ben deciso di non ingerirmi piú di affari. Ma il sapore dell'uva sultanina mi restò in bocca ed ogni giorno al Tergesteo m'informavo del suo prezzo. Di altro non m'importava. Salí lento, lento come se avesse avuto bisogno di raccogliersi per prendere lo slancio. Poi in un giorno solo fu un balzo formidabile in alto. Il raccolto era stato miserabile e lo si sapeva appena ora. Strana cosa l'ispirazione! Essa non aveva previsto il raccolto scarso ma solo l'aumento di prezzo.
554 Le carte si vendicarono. Intanto io non sapevo restare al mio mastro e perdetti ogni rispetto per i miei insegnanti, tanto piú che ora l'Olivi non pareva tanto sicuro di aver fatto bene. Io risi e derisi; fu la mia occupazione principale.
555 Arrivò una seconda offerta dal prezzo quasi raddoppiato. L'Olivi, per rabbonirmi, mi domandò consiglio ed io, trionfante, dissi che non avrei mangiata l'uva a quel prezzo. L'Olivi, offeso, mormorò:
556 Io m'attengo al sistema che seguii per tutta la mia vita.
557 E andò in cerca del compratore. Ne trovò uno per un quantitativo molto ridotto e, sempre con le migliori intenzioni, ritornò da me e mi domandò esitante:
558 La copro, questa piccola vendita?
559 Risposi, sempre cattivo:
560 Io l'avrei coperta prima di farla.
561 Finí che l'Olivi perdette la forza della propria convinzione e lasciò la vendita scoperta.
562 Le uve continuarono a salire e noi si perdette tutto quello che sul piccolo quantitativo si poteva perdere.
563 Ma l'Olivi si arrabbiò con me e dichiarò che aveva giuocato solo per compiacermi. Il furbo dimenticava che io l'avevo consigliato di puntare sul rosso e ch'egli, per farmela, aveva puntato sul nero. La nostra lite fu insanabile. L'Olivi s'appellò a mio suocero dicendogli che fra lui e me la ditta sarebbe stata sempre danneggiata, e che se la mia famiglia lo desiderava, egli e suo figlio si sarebbero ritirati per lasciarmi il campo libero. Mio suocero decise subito in favore dell'Olivi. Mi disse:
564 L'affare della frutta secca è troppo istruttivo. Siete due uomini che non potete stare insieme. Ora chi ha da ritirarsi? Chi senza l'altro avrebbe fatto un solo buon affare, o chi da mezzo secolo dirige da solo la casa?
565 Anche Augusta fu indotta dal padre a convincermi di non ingerirmi piú nei miei propri affari.
566 Pare che la tua bontà e la tua ingenuità - mi disse - ti rendano disadatto agli affari. Resta a casa con me.
567 Io, irato, mi ritirai nella mia tenda, ossia nel mio studiolo. Per qualche tempo leggiucchiai e suonai, poi sentii il desiderio di una attività piú seria e poco mancò non ritornassi alla chimica eppoi alla giurisprudenza. Infine, e non so veramente perché, per qualche tempo mi dedicai agli studi di religione. Mi parve di riprendere lo studio che avevo iniziato alla morte di mio padre. Forse questa volta fu per un tentativo energico di avvicinarmi ad Augusta e alla sua salute. Non bastava andare a messa con lei; io dovevo andarci altrimenti, leggendo cioè Renan e Strauss, il primo con diletto, il secondo sopportandolo come una punizione. Ne dico qui solo per rilevare quale grande desiderio m'attaccasse ad Augusta. E lei questo desiderio non indovinò quando mi vide nelle mani i Vangeli in edizione critica. Preferiva l'indifferenza alla scienza e cosí non seppe apprezzare il massimo segno d'affetto che le avevo dato. Quando, come soleva, interrompendo la sua <I>toilette</I>  o le sue occupazioni in casa, s'affacciava alla porta della mia stanza per dirmi una parola di saluto, vedendomi chino su quei testi, torceva la bocca:
568 Sei ancora con quella roba?
569 La religione di cui Augusta abbisognava non esigeva del tempo per acquisirsi o per praticarsi. Un inchino e l'immediato ritorno alla vita! Nulla di piú. Da me la religione acquistava tutt'altro aspetto. Se avessi avuto la fede vera, io a questo mondo non avrei avuto che quella.
570 Poi nella mia stanzetta magnificamente organizzata venne talvolta la noia. Era piuttosto un'ansia perché proprio allora mi pareva di sentirmi la forza di lavorare, ma stavo aspettando che la vita m'avesse imposto qualche compito. Nell'attesa uscivo frequentemente e passavo molte ore al Tergesteo o in qualche caffè.
571 Vivevo in una simulazione di attività. Un'attività noiosissima.
572 La visita di un amico d'Università, che aveva dovuto rimpatriare in tutta furia da un piccolo paese della Stiria per curarsi di una grave malattia, fu la mia Nemesi, benché non ne avesse avuto l'aspetto. Arrivò a me dopo di aver fatto a Trieste un mese di letto ch'era valso a convertire la sua malattia, una nefrite, da acuta in cronica e probabilmente inguaribile.
573 Ma egli credeva di star meglio e s'apprestava lietamente a trasferirsi subito, durante la primavera, in qualche luogo dal clima piú dolce del nostro, dove s'aspettava di essere restituito alla piena salute. Gli fu fatale forse di essersi indugiato troppo nel rude luogo natio.
574 Io considero la visita di quell'uomo tanto malato, ma lieto e sorridente, come molto nefasta per me; ma forse ho torto: essa non segna che una data nella mia vita, per la quale bisognava pur passare.
575 Il mio amico, Enrico Copler, si stupí ch'io nulla avessi saputo né di lui né della sua malattia di cui Giovanni doveva essere informato. Ma Giovanni, dacché era malato anche lui, non aveva tempo per nessuno e non me ne aveva detto niente ad onta che ogni giorno di sole venisse nella mia villa per dormire qualche ora all'aria aperta.
576 Fra' due malati si passò un pomeriggio lietissimo. Si parlò delle loro malattie, ciò che costituisce il massimo svago per un malato ed è una cosa non troppo triste per i sani che stanno a sentire. Ci fu solo un dissenso perché Giovanni aveva bisogno dell'aria aperta che all'altro era proibita. Il dissenso si dileguò quando si levò un po' di vento che indusse anche Giovanni di restare con noi, nella piccola stanza calda.
577 Il Copler ci raccontò della sua malattia che non dava dolore ma toglieva la forza. Soltanto ora che stava meglio sapeva quanto fosse stato malato. Parlò delle medicine che gli erano state propinate e allora il mio interesse fu piú vivo. Il suo dottore gli aveva consigliato fra altro un efficace sistema per procurargli un lungo sonno senza perciò avvelenarlo con veri sonniferi. Ma questa era la cosa di cui io avevo sopra tutto bisogno!
578 Il mio povero amico, sentendo il mio bisogno di medicine, si lusingò per un istante ch'io potessi essere affetto della stessa sua malattia e mi consigliò di farmi vedere, ascoltare e analizzare.
579 Augusta si mise a ridere di cuore e dichiarò ch'io non ero altro che un malato immaginario. Allora sul volto emaciato del Copler passò qualche cosa che somigliava ad un risentimento. Subito, virilmente, si liberò dallo stato d'inferiorità a cui pareva fosse condannato, aggredendomi con grande energia:
580 Malato immaginario? Ebbene, io preferisco di essere un malato reale. Prima di tutto un malato immaginario è una mostruosità ridicola eppoi per lui non esistono dei farmachi mentre la farmacia, come si vede in me, ha sempre qualche cosa di efficace per noi malati veri!
581 La sua parola sembrava quella di un sano ed io - voglio essere sincero - ne soffersi.
582 Mio suocero s'associò a lui con grande energia, ma le sue parole non arrivavano a gettare un disprezzo sul malato immaginario, perché tradivano troppo chiaramente l'invidia per il sano. Disse che se egli fosse stato sano come me, invece di seccare il prossimo con le lamentele, sarebbe corso ai suoi cari e buoni affari, specie ora che gli era riuscito di diminuire la sua pancia. Egli non sapeva neppure che il suo dimagrimento non veniva considerato come un sintomo favorevole.
583 Causa l'assalto del Copler, io avevo veramente l'aspetto di un malato e di un malato maltrattato.
584 Augusta sentí il bisogno d'intervenire in mio soccorso. Carezzando la mano che avevo abbandonata sul tavolo, essa disse che la mia malattia non disturbava nessuno e ch'ella non era neppur convinta ch'io credessi d'esser ammalato, perché altrimenti non avrei avuto tanta gioia di vivere. Cosí il Copler ritornò allo stato d'inferiorità cui era condannato. Egli era del tutto solo a questo mondo e se poteva lottare con me in fatto di salute, non poteva contrappormi alcun affetto simile a quello che Augusta m'offriva. Sentendo vivo il bisogno di un'infermiera, si rassegnò di confessarmi piú tardi quanto egli m'aveva invidiato per questo.
585 La discussione continuò nei giorni seguenti con un tono piú calmo mentre Giovanni dormiva in giardino. E il Copler, dopo averci pensato sú, asseriva ora che il malato immaginario era un malato reale, ma piú intimamente di questi ed anche piú radicalmente. Infatti i suoi nervi erano ridotti cosí da accusare una malattia quando non c'era, mentre la loro funzione normale sarebbe consistita nell'allarmare col dolore e indurre a correre al riparo.
586 Sí! - dicevo io. - Come ai denti, dove il dolore si manifesta solo quando il nervo è scoperto e per la guarigione occorre la sua distruzione.
587 Si terminò col trovarsi d'accordo sul fatto che un malato e l'altro si valevano. Proprio nella sua nefrite era mancato e mancava tuttavia un avviso dei nervi, mentre che i miei nervi, invece, erano forse tanto sensibili da avvisarmi della malattia di cui sarei morto qualche ventennio piú tardi. Erano dunque dei nervi perfetti e avevano l'unico svantaggio di concedermi pochi giorni lieti a questo mondo. Essendogli riuscito a mettermi fra gli ammalati, il Copler fu soddisfattissimo.
588 Non so perché il povero malato avesse la mania di parlare di donne e, quando non c'era mia moglie, non si parlava d'altro. Egli pretendeva che dal malato reale, almeno nelle malattie che noi sapevamo, il sesso s'affievolisse, ciò ch'era una buona difesa dell'organismo, mentre dal malato immaginario che non soffriva che pel disordine di nervi troppo laboriosi (questa era la nostra diagnosi) esso fosse patologicamente vivo. Io corroborai la sua teoria con la mia esperienza e ci compiangemmo reciprocamente. Ignoro perché non volli dirgli che io mi trovavo lontano da ogni sregolatezza e ciò da lungo tempo. Avrei almeno potuto confessare che mi ritenevo convalescente se non sano, per non offenderlo troppo e perché dirsi sano quando si conoscono tutte le complicazioni del nostro organismo è una cosa difficile.
589 Tu desideri tutte le donne belle che vedi? - inquisí ancora il Copler.
590 Non tutte! - mormorai io per dirgli che non ero tanto malato. Intanto io non desideravo Ada che vedevo ogni sera. Quella, per me, era proprio la donna proibita. Il fruscio delle sue gonne non mi diceva niente e, se mi fosse stato permesso di muoverle con le mie stesse mani, sarebbe stata la stessa cosa. Per fortuna non l'avevo sposata. Questa indifferenza era, o mi sembrava, una manifestazione di salute genuina. Forse il mio desiderio per lei era stato tanto violento da esaurirsi da sé.
591 E quelle linee dolci in quella carne che pareva trasparente, e celava tanto bene il sangue e le vene forse troppo deboli per poter apparire, domandavano affetto e protezione.
592 Ora ero pronto di accordarle tanto affetto e protezione, incondizionatamente, ed anche nel momento in cui mi sarei sentito tanto disposto di ritornare ad Augusta, perché essa in quel momento non domandava che un affetto paterno che potevo concedere senza tradire. Quale soddisfazione! Restavo là con Carla, le accordavo quello che la sua faccina ovale domandava e non mi allontanavo da Augusta! Il mio affetto per Carla si ingentilí. Da allora, quando sentivo il bisogno di onestà e purezza, non occorse piú abbandonarla, ma potei restare con lei e cambiare discorso.
593 Questa nuova dolcezza era dovuta alla sua faccina ovale ch'io allora avevo scoperto o al suo talento musicale? Innegabile il talento! La strana canzonetta triestina finisce con una strofe in cui la stessa giovinetta proclama di essere vecchia e malandata e che oramai non ha piú bisogno di altra libertà che di morire. Carla continuava a profondere malizia e lietezza nel verso povero. Era tuttavia la giovinezza che si fingeva vecchia per proclamare meglio da quel nuovo punto di vista il suo diritto.
594 Quando terminò e mi trovò in piena ammirazione, anch'essa per la prima volta oltre che amarmi mi volle veramente bene. Sapeva che a me quella canzonetta sarebbe piaciuta di piú del canto che le insegnava il suo maestro:
595 Peccato - aggiunse con tristezza, - che se non si vuole andare pei <I>cafés</I>  <I>chantants</I>, non si possa trarre da ciò il necessario per vivere.
596 La convinsi facilmente che le cose non stavano cosí. V'erano a questo mondo molte grandi artiste che dicevano e non cantavano.
597 Essa si fece dire dei nomi. Era beata di apprendere quanto importante avrebbe potuto divenire la sua arte.
598 Io so - aggiunse ingenuamente, - che questo canto è ben piú difficile dell'altro per il quale basta gridare a perdifiato.
599 Io sorrisi e non discussi. La sua arte era anch'essa certamente difficile ed essa lo sapeva perché era quella la sola arte che conoscesse. Quella canzonetta le era costata uno studio lunghissimo. L'aveva detta e ridetta correggendo l'intonazione di ogni parola, di ogni nota. Adesso ne studiava un'altra, ma l'avrebbe saputa soltanto di lí a qualche settimana. Prima non voleva farla sentire.
600 Seguirono dei momenti deliziosi in quella stanza ove fino ad allora non s'erano svolte che delle scene di brutalità. Ecco che a Carla s'apriva anche una carriera. La carriera che m'avrebbe liberato di lei. Molto simile a quella che per lei aveva sognato il Copler! Le proposi di trovarle un maestro. Essa dapprima si spaventò della parola, ma poi si lasciò convincere facilmente quando le dichiarai che si poteva provare, e ch'essa sarebbe rimasta libera di congedarlo quando le fosse sembrato noioso o poco utile.
601 Anche con Augusta mi trovai quel giorno molto bene. Avevo l'animo tranquillo come se fossi ritornato da una passeggiata e non dalla casa di Carla o come avrebbe dovuto averlo il povero Copler quando abbandonava quella casa nei giorni in cui non gli avevano dato motivo ad arrabbiarsi.
602 Ne godetti come se fossi giunto a un'oasi. Per me e per la mia salute sarebbe stato gravissimo se tutta la mia lunga relazione con Carla si fosse svolta in un'eterna agitazione. Da quel giorno, come risultato della bellezza estetica, le cose si svolsero piú calme con le lievi interruzioni necessarie a rianimare tanto il mio amore per Carla, quanto quello per Augusta. Ogni mia visita a Carla significava bensí un tradimento per Augusta, ma tutto era presto dimenticato in un bagno di salute e di buoni propositi. Ed il buon proposito non era brutale ed eccitante come quando avevo nella strozza il desiderio di dichiarare a Carla che non l'avrei rivista mai piú. Ero dolce e paterno: ecco che di nuovo io pensavo alla sua carriera. Abbandonare ogni giorno una donna per correrle dietro il giorno appresso, sarebbe stata una fatica a cui il mio povero cuore non avrebbe saputo reggere. Cosí, invece, Carla restava sempre in mio potere ed io l'avviavo ora in una direzione ed ora in un'altra.
603 Per lungo tempo i propositi buoni non furono tanto forti da indurmi a correre per la città in cerca del maestro che avrebbe fatto per Carla. Mi baloccavo col proposito buono, restando sempre seduto. Poi un bel giorno Augusta mi confidò che si sentiva madre ed allora il mio proposito per un istante ingigantí e Carla ebbe il suo maestro.
604 Avevo esitato tanto anche perché era evidente che, anche senza maestro, Carla aveva saputo avviarsi ad un lavoro veramente serio nella sua nuova arte. Ogni settimana essa sapeva dirmi una canzonetta nuova, analizzata accuratamente nell'atteggiamento e nella parola. Certe note avrebbero abbisognato di essere levigate un poco, ma forse avrebbero finito con l'affinarsi da sé. Una prova decisiva che Carla era una vera artista, io l'avevo nel modo com'essa perfezionava continuamente le sue canzonette senza mai rinunziare alle cose migliori ch'essa aveva saputo far sue di prim'acchito. La indussi spesso a ridirmi il suo primo lavoro e vi trovavo aggiunto ogni volta qualche accento nuovo ed efficace. Data la sua ignoranza, era meraviglioso che nel grande sforzo di scoprire una forte espressione, non le fosse mai capitato di cacciare nella canzonetta dei suoni falsi o esagerati. Da vera artista, essa aggiungeva ogni giorno una pietruccia al piccolo edificio, e tutto il resto restava intatto. Non la canzonetta era stereotipata, ma il sentimento che la dettava. Carla, prima di cantare, si passava sempre la mano sulla faccia e dietro quella mano si creava un istante di raccoglimento che bastava a piombarla nella commediola ch'essa doveva costruire. Una commedia non sempre puerile. Il mentore ironico di <I>Rosina te xe nata in un casoto</I>  minacciava, ma non troppo seriamente. Pareva che la cantante avvertisse di sapere ch'era la storia di ogni giorno. Il pensiero di Carla era un altro, ma finiva con l'arrivare allo stesso risultato:
605 La mia simpatia è per Rosina perché altrimenti la canzonetta non meriterebbe di essere cantata, - essa diceva.
606 Avvenne qualche volta che Carla inconsapevolmente riaccendesse il mio amore per Augusta e il mio rimorso. Infatti ciò si avverò ogni qualvolta ella si permise dei movimenti offensivi contro la posizione tanto solidamente occupata da mia moglie.
607 Era sempre vivo il suo desiderio di avermi tutto suo per una notte intera; mi confidò che le pareva che, per non avere mai dormito uno accanto all'altro, fossimo meno intimi. Volendo abituarmi ad essere piú dolce con lei, non mi rifiutai risolutamente di compiacerla, ma quasi sempre pensai che non sarebbe stato possibile di fare una cosa simile a meno che non mi fossi rassegnato di trovare alla mattina Augusta ad una finestra donde m'avesse aspettato la notte intera. Eppoi, non sarebbe stato questo un nuovo tradimento a mia moglie? Talvolta, cioè quando correvo a Carla pieno di desiderio, mi sentivo propenso di accontentarla, ma subito dopo ne vedevo l'impossibilità e la sconvenienza. Ma cosí non si arrivò per lungo tempo né ad eliminare la prospettiva della cosa né a realizzarla. Apparentemente si era d'accordo: prima o poi avremmo passata una notte intera insieme. Intanto ora ce n'era la possibilità perché io avevo indotto le Gerco di congedare quegl'inquilini che tagliavano la loro casa in due parti, e Carla aveva finalmente la sua camera da letto.
608 Ora avvenne che poco dopo le nozze di Guido, mio suocero fu colto da quella crisi che doveva ucciderlo ed io ebbi l'imprudenza di raccontare a Carla che mia moglie doveva passare una notte al capezzale di suo padre per concedere un riposo a mia suocera. Non ci fu piú il caso di esimermi: Carla pretese che passassi con lei quella stessa notte ch'era tanto dolorosa per mia moglie. Non ebbi il coraggio di ribellarmi a tale capriccio e mi vi acconciai col cuore pesante.
609 Mi preparai a quel sacrificio. Non andai da Carla alla mattina e cosí corsi da lei alla sera con pieno desiderio dicendomi anche ch'era infantile di credere di tradire piú gravemente Augusta perché la tradivo in un momento in cui essa per altre cause soffriva. Perciò arrivai persino a spazientirmi perché la povera Augusta mi tratteneva per spiegarmi come avessi dovuto movermi per avere pronte le cose di cui potevo aver bisogno a cena, per la notte ed anche per il caffè della mattina dopo.
610 Carla m'accolse nello studio. Poco dopo colei ch'era sua madre e serva ci serví una cenetta squisita a cui io aggiunsi i dolci che avevo portati con me. La vecchia ritornò poi per sparecchiare ed io veramente avrei voluto coricarmi subito, ma era veramente ancora troppo di buon'ora e Carla m'indusse di starla a sentir cantare. Essa passò tutto il suo repertorio e fu quella certamente la parte migliore di quelle ore, perché l'ansietà con cui aspettavo la mia amante, andava ad aumentare il piacere che sempre m'aveva data la canzonetta di Carla.
611 Un pubblico ti coprirebbe di fiori e d'applausi - le dichiarai ad un certo momento dimenticando che sarebbe stato impossibile di mettere tutto un pubblico nello stato d'animo in cui mi trovavo io.
612 Ci coricammo infine nello stesso letto in una stanzuccia piccola e del tutto disadorna. Pareva un corridoio stroncato da una parete. Non avevo ancora sonno e mi disperavo al pensiero che, se ne avessi avuto, non avrei potuto dormire con tanta poca aria a mia disposizione.
613 Carla fu chiamata dalla voce timida di sua madre.
614 Essa, per rispondere, andò all'uscio e lo socchiuse. La sentii come con voce concitata domandava alla vecchia che cosa volesse. Timidamente l'altra disse delle parole di cui non percepii il senso e allora Carla urlò prima di sbattere l'uscio in faccia alla madre:
615 Lasciami in pace. T'ho già detto che per questa notte dormo di qua!
616 Cosí appresi che Carla, tormentata di notte dalla paura, dormiva sempre nella sua antica stanza da letto con la madre, ove aveva un altro letto, mentre quello sul quale dovevamo dormire insieme restava vuoto. Era certamente per paura ch'essa m'aveva indotto di fare quella partaccia ad Augusta. Confessò con una maliziosa allegria cui non partecipai, che con me si sentiva piú sicura che con sua madre. Mi diede da pensare quel letto in prossimità di quella stanza da studio solitaria. Non l'avevo mai visto prima. Ero geloso! Poco dopo fui sprezzante anche per il contegno che Carla aveva avuto con quella sua povera madre. Era fatta un po' differentemente di Augusta che aveva rinunziato alla mia compagnia pur di assistere i suoi genitori. Io sono specialmente sensibile a mancanze di riguardo verso i proprii genitori, io, che avevo sopportato con tanta rassegnazione le bizze del mio povero padre.
617 Carla non poté accorgersi né della mia gelosia né del mio disprezzo. Soppressi le manifestazioni di gelosia ricordando come non avessi alcun diritto ad essere geloso visto che passavo buona parte delle mie giornate augurandomi che qualcuno mi portasse via la mia amante. Non v'era neppure alcuno scopo di far vedere il mio disprezzo alla povera giovinetta ormai che già mi baloccavo di nuovo col desiderio di abbandonarla definitivamente, e quantunque il mio sdegno fosse ora ingrandito anche dalle ragioni che poco prima avrebbero provocata la mia gelosia. Quello che occorreva era di allontanarsi al piú presto da quella piccola stanzuccia non contenente di piú di un metro cubo di aria, per soprappiú caldissima.
618 Non ricordo neppure bene il pretesto che addussi per allontanarmi subito. Affannosamente mi misi a vestirmi. Parlai di una chiave che avevo dimenticato di consegnare a mia moglie per cui essa, se le fosse occorso, non avrebbe potuto entrare in casa. Feci vedere la chiave che non era altra che quella che io avevo sempre in tasca, ma che fu presentata come la prova tangibile della verità delle mie asserzioni. Carla non tentò neppure di fermarmi; si vestí e m'accompagnò fin giú per farmi luce. Nell'oscurità delle scale, mi parve ch'essa mi squadrasse con un'occhiata inquisitrice che mi turbò: cominciava essa a intendermi? Non era tanto facile, visto ch'io sapevo simulare troppo bene. Per ringraziarla perché mi lasciava andare, continuavo di tempo in tempo ad applicare la mie labbra sulle sue guancie e simulavo di essere pervaso tuttavia dallo stesso entusiasmo che m'aveva condotto da lei. Non ebbi poi ad avere alcun dubbio della buona riuscita della mia simulazione. Poco prima, con un'ispirazione d'amore, Carla m'aveva detto che il brutto nome di Zeno, che m'era stato appioppato dai miei genitori, non era certamente quello che spettava alla mia persona.
619 Essa avrebbe voluto ch'io mi chiamassi Dario e lí, nell'oscurità, si congedò da me appellandomi cosí. Poi s'accorse che il tempo era minaccioso e m'offerse di andar a prendere per me un ombrello. Ma io assolutamente non potevo sopportarla piú oltre, e corsi via tenendo sempre quella chiave in mano nella cui autenticità cominciavo a credere anch'io.
620 L'oscurità profonda della notte veniva interrotta di tratto in tratto da bagliori abbacinanti. Il mugolio del tuono pareva lontanissimo. L'aria era ancora tranquilla e soffocante quanto nella stessa stanzetta di Carla. Anche i radi goccioloni che cadevano erano tiepidi. In alto, evidente, c'era la minaccia ed io mi misi a correre. Ebbi la ventura di trovare in Corsia Stadion un portone ancora aperto e illuminato in cui mi rifugiai proprio a tempo! Subito dopo il nembo s'abbatté sulla via. Lo scroscio di pioggia fu interrotto da una ventata furiosa che parve portasse con sé anche il tuono tutt'ad un tratto vicinissimo. Trasalii! Sarebbe stato un vero compromettermi se fossi stato ammazzato dal fulmine, a quell'ora, in Corsia Stadion! Meno male ch'ero noto anche a mia moglie come un uomo dai gusti bizzarri che poteva correre fin là di notte e allora c'è sempre la scusa a tutto.
621 Dovetti rimanere in quel portone per piú di un'ora. Pareva sempre che il tempo volesse mitigarsi, ma subito riprendeva il suo furore sempre in altra forma. Ora grandinava.
622 Era venuto a tenermi compagnia il portinaio della casa e dovetti regalargli qualche soldo perché ritardasse la chiusura del portone. Poi entrò nel portone un signore vestito di bianco e grondante d'acqua. Era vecchio, magro e secco. Non lo rividi mai piú, ma non so dimenticarlo per la luce del suo occhio nero e per l'energia ch'emanava da tutta la sua personcina. Bestemmiava per essere stato infradiciato a quel modo.
623 A me è sempre piaciuto d'intrattenermi con la gente che non conosco. Con loro mi sento sano e sicuro. È addirittura un riposo. Devo stare attento di non zoppicare, e sono salvo.
624 Quando finalmente il tempo si mitigò, io mi recai subito non a casa mia, ma da mio suocero. Mi pareva in quel momento di dover correre subito all'appello e vantarmi di esservi.Mio suocero s'era addormentato e Augusta, ch'era aiutata da una suora, poté venire da me. Essa disse che avevo fatto bene di venire e si gettò piangente fra le mie braccia. Aveva visto soffrire suo padre orrendamente.
625 S'accorse ch'ero tutto bagnato. Mi fece adagiare in una poltrona e mi coperse con delle coperte. Poi per qualche tempo poté restarmi accanto. Io ero molto stanco e anche nel breve tempo in cui essa poté restare con me, lottai col sonno. Mi sentivo molto innocente perché intanto non l'avevo tradita restando lontano dal domicilio coniugale per tutta una notte. Era tanto bella l'innocenza che tentai di aumentarla. Incominciai a dire delle parole che somigliavano ad una confessione. Le dissi che mi sentivo debole e colpevole e, visto che a questo punto essa mi guardò domandando delle spiegazioni, subito ritirai la testa nel guscio e, gettandomi nella filosofia, le raccontai che il sentimento della colpa io l'avevo ad ogni mio pensiero, ad ogni mio respiro.
626 Cosí pensano anche i religiosi, - disse Augusta; - chissà che non sia per le colpe che ignoriamo che veniamo puniti cosí!
627 Diceva delle parole adatte ad accompagnare le sue lacrime che continuavano a scorrere. A me parve ch'essa non avesse ben compresa la differenza che correva fra il mio pensiero e quello dei religiosi, ma non volli discutere e al suono monotono del vento che s'era rinforzato, con la tranquillità che mi dava anche quel mio slancio alla confessione, m'addormentai di un lungo sonno ristoratore.
628 Quando venne la volta del maestro di canto, tutto fu regolato in poche ore. Io da tempo l'avevo scelto, e, per dire il vero, m'ero arrestato al suo nome, prima di tutto perché era il maestro piú a buon mercato di Trieste. Per non compromettermi, fu Carla stessa che andò a parlare con lui. Io non lo vidi mai, ma devo dire che oramai so molto di lui ed è una delle persone che piú stimo a questo mondo. Dev'essere un semplicione sano ciò che è strano per un artista che viveva per la sua arte, come questo Vittorio Lali. Insomma un uomo invidiabile, perché geniale e anche sano.
629 Intanto sentii subito che la voce di Carla s'ammorbidí e divenne piú flessibile e piú sicura. Noi avevamo avuto paura che il maestro le avesse imposto uno sforzo come aveva fatto quello scelto dal Copler. Forse egli s'adattò al desiderio di Carla, ma sta di fatto che restò sempre nel genere da lei prediletto. Solo molti mesi dopo essa s'accorse di essersene lievemente allontanata, affinandosi. Non cantava piú le canzonette triestine e poi neppure le napoletane, ma era passata ad antiche canzoni italiane e a Mozart e Schubert. Ricordo specialmente una «Ninna nanna» attribuita al Mozart, e nei giorni in cui sento meglio la tristezza della vita e rimpiango l'acerba fanciulla che fu mia e che io non amai, la «Ninna nanna» mi echeggia all'orecchio come un rimprovero. Rivedo allora Carla travestita da madre che trae dal suo seno i suoni piú dolci per conquistare il sonno al suo bambino. Eppure essa, ch'era stata un'amante indimenticabile, non poteva essere una buona madre, dato ch'era una cattiva figlia. Ma si vede che saper cantare da madre è una caratteristica che copre ogni altra.
630 Da Carla seppi la storia del suo maestro. Egli aveva fatto qualche anno di studii al Conservatorio di Vienna ed era poi venuto a Trieste ove aveva avuto la fortuna di lavorare per il nostro maggiore compositore colpito da cecità. Scriveva le sue composizioni sotto dettatura, ma ne aveva anche la fiducia, che i ciechi devono concedere intera. Cosí ne conobbe i propositi, le convinzioni tanto mature e i sogni sempre giovanili. Presto egli ebbe nell'anima tutta la musica, anche quella che occorreva a Carla. Mi fu descritto anche il suo aspetto; giovine, biondo, piuttosto robusto, dal vestire negletto, una camicia molle non sempre di bucato, una cravatta che doveva essere stata nera, abbondante e sciolta, un cappello a cencio dalle falde spropositate. Di poche parole - a quanto mi diceva Carla e devo crederle perché pochi mesi appresso con lei si fece ciarliero ed essa me lo disse subito, - e tutt'intento al compito che s'era assunto.
631 Ben presto la mia giornata subí delle complicazioni. Alla mattina portavo da Carla oltre che amore anche un'amara gelosia, che diveniva molto meno amara nel corso della giornata. Mi pareva impossibile che quel giovinotto non approfittasse della buona, facile preda. Carla pareva stupita ch'io potessi pensare una cosa simile, ma io lo ero altrettanto al vederla stupita. Non ricordava piú come le cose si erano svolte fra me e lei?
632 Un giorno arrivai a lei furibondo di gelosia ed essa spaventata si dichiarò subito pronta di congedare il maestro. Io non credo che il suo spavento fosse prodotto solo dalla paura di vedersi privata del mio appoggio, perché in quell'epoca io ebbi da lei delle manifestazioni di affetto di cui non posso dubitare e che alle volte mi resero beato, mentre, quando mi trovavo in altro stato d'animo, mi seccarono sembrandomi atti ostili ad Augusta ai quali, e per quanto mi costasse, ero obbligato d'associarmi. La sua proposta m'imbarazzò. Che mi trovassi nel momento dell'amore o del pentimento, io non volevo accettare un suo sacrificio. Doveva pur esserci qualche comunicazione fra' miei due stati d'essere ed io non volevo diminuire la mia già scarsa libertà di passare dall'uno all'altro. Perciò non sapevo accettare una tale proposta che invece mi rese piú cauto cosí che anche quando ero esasperato dalla gelosia, seppi celarla. Il mio amore si fece piú iroso e finí che quando la desideravo e anche quando non la desideravo affatto, Carla mi sembrò un essere inferiore. Mi tradiva o di lei non m'importava nulla. Quando non l'odiavo non ricordavo che ci fosse. Io appartenevo all'ambiente di salute e di onestà in cui regnava Augusta a cui ritornavo subito col corpo e l'anima non appena Carla mi lasciava libero.
633 Data l'assoluta sincerità di Carla, io so esattamente per quanto lunghissimo tempo essa fu tutta mia, e la mia gelosia ricorrente di allora non può essere considerata che quale una manifestazione di un recondito senso di giustizia. Doveva pur toccarmi quello che meritavo. Prima s'innamorò il maestro. Credo il primo sintomo del suo amore sia consistito in certe parole che Carla mi riferí con aria di trionfo ritenendo segnassero il primo suo grande successo artistico pel quale le competesse una mia lode. Egli le avrebbe detto che oramai s'era tanto affezionato al suo compito di maestro che, se essa non avesse potuto pagarlo, egli avrebbe continuato ad impartirle gratuitamente le sue lezioni. Io le avrei dato uno schiaffo, ma venne poi il momento in cui potei pretendere di saper gioire di quel suo vero trionfo. Essa poi dimenticò il crampo che alla prima aveva colto tutta la mia faccia come di chi ficca i denti in un limone e accettò serena la lode tardiva. Egli le aveva raccontati tutti gli affari proprii che non erano molti: musica, miseria e famiglia. La sorella gli aveva dati dei grandi dispiaceri ed egli aveva saputo comunicare a Carla una grande antipatia per quella donna ch'essa non conosceva. Quell'antipatia mi parve molto compromettente. Cantavano ora insieme delle canzoni sue che mi parvero povera cosa tanto quando amavo Carla quanto allorché la sentivo come una catena.
634 Può tuttavia essere che fossero buone ad onta che io poi non ne abbia piú sentito parlare. Egli diresse poi delle orchestre negli Stati Uniti e forse colà si cantano anche quelle canzoni.
635 Ma un bel giorno essa mi raccontò ch'egli le aveva chiesto di diventare sua moglie e ch'essa aveva rifiutato. Allora io passai due quarti d'ora veramente brutti: il primo quando mi sentii tanto invaso dall'ira che avrei voluto aspettare il maestro per gettarlo fuori a furia di calci, ed il secondo quando non trovai il verso per conciliare la possibilità della continuazione della mia tresca, con quel matrimonio ch'era in fondo una bella e morale cosa e una ben piú sicura semplificazione della mia posizione che non la carriera di Carla ch'essa immaginava d'iniziare in mia compagnia.
636 Perché quel benedetto maestro s'era scaldato a quel modo e tanto presto? Oramai, in un anno di relazione, tutto s'era attenuato fra me e Carla, anche il cipiglio mio quando l'abbandonavo. I rimorsi miei erano oramai sopportabilissimi e quantunque Carla avesse ancora ragione di dirmi rude in amore, pareva ch'essa ci si fosse abituata. Ciò doveva esserle riuscito anche facile, perché io non fui mai piú tanto brutale come nei primi giorni della nostra relazione e, sopportato quel primo eccesso, il resto dovette esserle sembrato in confronto mitissimo.
637 Perciò anche quando di Carla non m'importava piú tanto, mi fu sempre facile prevedere che il giorno appresso io non sarei stato contento di venir a cercare la mia amante e di non trovarla piú. Certo sarebbe stato bellissimo allora di saper ritornare ad Augusta senza il solito intermezzo con Carla ed in quel momento io me ne sentivo capacissimo; ma prima avrei voluto provare. Il mio proposito in quel momento dev'essere stato circa il seguente: «Domani la pregherò di accettare la proposta del maestro, ma oggi gliel'impedirò». E con grande sforzo continuai a comportarmi da amante. Adesso, dicendone, dopo di aver registrate tutte le fasi della mia avventura, potrebbe sembrare ch'io facessi il tentativo di far sposare da altri la mia amante e di conservarla mia, ciò che sarebbe stata la politica di un uomo piú avveduto di me e piú equilibrato, sebbene altrettanto corrotto. Ma non è vero: essa doveva sposare il maestro, ma doveva decidervisi solo la dimane. È perciò che solo allora cessò quel mio stato ch'io m'ostino a qualificare d'innocenza. Non era piú possibile adorare Carla per un breve periodo della giornata eppoi odiarla per ventiquattr'ore continue, e levarsi ogni mattina ignorante come un neonato a rivivere la giornata, tanto simile alle precedenti, per sorprendersi delle avventure ch'essa apportava e che avrei dovuto sapere a mente. Ciò non era piú possibile. Mi si prospettava l'eventualità di perdere per sempre la mia amante se non avessi saputo domare il mio desiderio di liberarmene. Io subito lo domai!
638 Ed è cosí che quel giorno, quando di lei non m'importò piú, feci a Carla una scena d'amore che per la sua falsità e la sua furia somigliava a quella che, preso dal vino, avevo fatto ad Augusta quella notte in vettura. Solo che qui mancava il vino ed io finii col commovermi veramente al suono delle mie parole.
639 Le dichiarai ch'io l'amavo, che non sapevo piú restare senza di lei e che d'altronde mi pareva di esigere da lei il sacrificio della sua vita, visto che io non potevo offrirle niente che potesse eguagliare quanto le veniva offerto dal Lali.
640 Fu proprio una nota nuova nella nostra relazione che pur aveva avuto tante ore di grande amore. Essa stava a sentire le mie parole beandovisi. Molto tardi si accinse a convincermi che non era il caso di affliggersi tanto perché il Lali s'era innamorato. Essa non ci pensava affatto!
641 Io la ringraziai, sempre col medesimo fervore che ora però non arrivava piú a commovermi. Sentivo un certo peso allo stomaco: evidentemente ero piú compromesso che mai. Il mio apparente fervore invece che diminuire aumentò, solo per permettermi di dire qualche parola d'ammirazione pel povero Lali. Io non volevo mica perderlo, io volevo salvarlo, ma per il giorno dopo.
642 Quando si trattò di risolvere se tenere o congedare il maestro, andammo presto d'accordo. Io non avrei poi voluto privarla oltre che del matrimonio anche della carriera. Anche lei confessò che al suo maestro ci teneva: ad ogni lezione aveva la prova della necessità della sua assistenza. M'assicurò che potevo vivere tranquillo e fiducioso: essa amava me e nessun altro.
643 Evidentemente il mio tradimento s'era allargato ed esteso. M'ero attaccato alla mia amante di una nuova affettuosità che legava di nuovi legami e invadeva un territorio finora riservato solo al mio affetto legittimo. Ma, ritornato a casa mia, anche quest'affettuosità non esisteva piú e si riversava aumentata su Augusta. Per Carla non avevo altro che una profonda sfiducia. Chissà che cosa c'era di vero in quella proposta di matrimonio! Non mi sarei meravigliato se un bel giorno, senz'aver sposato quell'altro, Carla m'avesse regalato un figlio dotato di un grande talento per la musica. E ricominciarono i ferrei propositi che m'accompagnavano da Carla, per abbandonarmi quand'ero con lei e per riprendermi quando non l'avevo ancora lasciata. Tutta roba senza conseguenze di nessun genere.
644 E non vi furono altre conseguenze da queste novità. L'estate passò e si portò via mio suocero. Io ebbi poi un gran da fare nella nuova casa commerciale di Guido ove lavorai piú che in qualunque altro luogo, comprese le varie facoltà universitarie. Di questa mia attività dirò piú tardi. Passò anche l'inverno eppoi sbocciarono nel mio giardinetto le prime foglie verdi e queste non mi videro mai tanto accasciato come quelle dell'anno prima. Nacque mia figlia Antonia. Il maestro di Carla era sempre a nostra disposizione, ma Carla tuttavia non ne voleva sapere affatto ed io neppure, ancora.
645 Vi furono invece delle gravi conseguenze nei miei rapporti con Carla per avvenimenti che veramente non si sarebbero creduti importanti. Passarono quasi inavvertiti e furono rilevati solo dalle conseguenze che lasciarono.
646 Precisamente agli albori di quella primavera, io dovetti accettare di andar a passeggiare con Carla al Giardino Pubblico. Mi sembrava una grave compromissione, ma Carla desiderava tanto di camminare al braccio mio al sole, che finii col compiacerla.
647 Non doveva mai esserci concesso di vivere neppure per brevi istanti da marito e moglie ed anche questo tentativo finí male.
648 Per gustare meglio il nuovo improvviso tepore che veniva dal cielo nel quale sembrava il sole avesse riacquistato da poco l'imperio, sedemmo su una banchina. Il giardino, nelle mattine dei giorni feriali, era deserto e a me sembrava, che non movendomi, il rischio di venir osservato fosse ancora diminuito. Invece, appoggiato con l'ascella alla sua gruccia, a passi lenti, ma enormi, s'avvicinò a noi Tullio, quello dai cinquantaquattro muscoli e, senza guardarci, s'assise proprio accanto a noi. Poi levò la testa, il suo si scontrò nel mio sguardo e mi salutò:
649 Dopo tanto tempo! Come stai? Hai finalmente meno da fare?
650 S'era messo a sedere proprio accanto a me e nella prima sorpresa io mi movevo in modo da impedirgli la vista di Carla. Ma lui, dopo di avermi stretta la mano, mi domandò:
651 La tua Signora?
652 S'aspettava di venir presentato.
653 Mi sottomisi: La signorina Carla Gerco, un'amica di mia moglie.
654 Poi continuai a mentire e so da Tullio stesso che la seconda menzogna bastò a rivelargli tutto. Con un sorriso forzato, dissi:
655 Anche la signorina sedette a questo banco per caso accanto a me senza vedermi
656 Il mentitore dovrebbe tener presente che per essere creduto non bisogna dire che le menzogne necessarie. Col suo buon senso popolare, quando c'incontrammo di nuovo, Tullio mi disse
657 Spiegasti troppe cose ed io indovinai perciò che mentivi e che quella bella signorina era la tua amante.
658 Io allora avevo già perduta Carla e con grande voluttà gli confermai ch'egli aveva colto nel segno, ma gli raccontai con tristezza che oramai essa m'aveva abbandonato. Non mi credette ed io gliene fui grato. Mi pareva che la sua incredulità fosse un buon auspicio.
659 Carla fu colta da un malumore quale io non le avevo mai visto. Io so ora che da quel momento cominciò la sua ribellione. Subito non me ne avvidi perché per stare a sentire Tullio, che s'era messo a raccontarmi della sua malattia e delle cure che intraprendeva, io le volgevo le spalle. Piú tardi appresi che una donna, quand'anche si lasci trattare con meno gentilezza sempre salvo in certi istanti, non ammette di venir rinnegata in pubblico. Essa manifestò il suo sdegno piuttosto verso il povero zoppo che verso me e non gli rispose quand'egli le indirizzò la parola. Neppure io stavo a sentire Tullio perché per il momento non arrivavo ad interessarmi delle sue cure. Lo guardavo nei suoi piccoli occhi per intendere che cosa egli pensasse di quell'incontro. Sapevo ch'egli ormai era pensionato e che avendo tutto il giorno libero poteva facilmente invadere con le sue chiacchiere tutto il piccolo ambiente sociale della nostra Trieste di allora.
660 Poi, dopo una lunga meditazione, Carla si levò per lasciarci. Mormorò:
661 Arrivederci, - e si avviò.
662 Io sapevo che l'aveva con me e, sempre tenendo conto della presenza di Tullio, cercai di conquistare il tempo necessario per placarla. Le domandai il permesso di accompagnarla avendo da dirigermi dalla sua parte stessa.
663 Quel suo saluto secco significava addirittura l'abbandono e fu quella la prima volta in cui seriamente lo temetti. La dura minaccia mi toglieva il fiato.
664 Ma Carla stessa ancora non sapeva dove s'avviasse con quel suo passo deciso. Dava sfogo a una stizza del momento che fra poco l'avrebbe lasciata.
665 M'attese e poi mi camminò accanto senza parole. Quando fummo a casa, fu presa da un impeto di pianto che non mi spaventò perché la indusse a rifugiarsi fra le mie braccia. Io le spiegai chi fosse Tullio e quanto danno sarebbe potuto venirmi dalla sua lingua. Vedendo che piangeva tuttavia, ma sempre fra le mie braccia, osai un tono piú risoluto: voleva dunque compromettermi? Non avevamo sempre detto che avremmo fatto di tutto per risparmiare dei dolori a quella povera donna ch'era tuttavia mia moglie e la madre di mia figlia?
666 Parve che Carla si ravvedesse, ma volle restare sola per calmarsi. Io corsi via contentone
667 Dev'essere da quest'avventura che le venne ad ogni istante il desiderio di apparire in pubblico quale mia moglie. Pareva che, non volendo sposare il maestro, intendesse costringermi di occupare una parte maggiore del posto che a lui rifiutava. Mi seccò per lungo tempo perché prendessi due sedie ad un teatro, che avremmo poi occupate venendo da parti diverse per trovarci seduti uno accanto all'altro come per caso. Io con lei raggiunsi soltanto ma varie volte il Giardino Pubblico, quella pietra miliare dei miei trascorsi, cui ora arrivavo dall'altra parte. Oltre, mai! Perciò la mia amante finí col somigliarmi troppo. Senz'alcuna ragione, ad ogni istante, se la prendeva con me in scoppi di collera improvvisi. Presto si ravvedeva, ma bastavano per rendermi tanto eppoi tanto buono e docile. Spesso la trovavo che si scioglieva in lacrime e non arrivavo mai ad ottenere da lei una spiegazione del suo dolore. Forse la colpa fu mia perché non insistetti abbastanza per averla. Quando la conobbi meglio, cioè quand'essa mi abbandonò, non abbisognai di altre spiegazioni. Essa, stretta dal bisogno, s'era gettata in quell'avventura con me, che proprio non faceva per lei. Fra le mie braccia era divenuta donna e - amo supporlo - donna onesta. Naturalmente che ciò non va attribuito ad alcun merito mio, tanto piú che tutto mio fu il danno.
668 Le capitò un nuovo capriccio che dapprima mi sorprese e subito dopo teneramente mi commosse: volle vedere mia moglie. Giurava che non le si sarebbe avvicinata e che si sarebbe comportata in modo da non essere scorta da lei. Le promisi che quando avessi saputo di un'uscita di mia moglie ad un'ora precisa, glel'avrei fatto sapere. Essa doveva vedere mia moglie non vicino alla mia villa, luogo deserto ove il singolo è troppo osservato, ma in qualche via affollata della città.
669 In quel torno di tempo mia suocera fu colpita da un malore agli occhi per cui dovette bendarseli per varii giorni. S'annoiava mortalmente e, per indurla a tenere rigidamente la cura, le sue figliuole si dividevano la guardia presso di lei: mia moglie alla mattina, e Ada fino alle quattro precise del pomeriggio. Con risoluzione istantanea io dissi a Carla che mia moglie abbandonava la casa di mia suocera ogni giorno alle quattro precise.
670 Neppure adesso so esattamente perché io abbia presentata Ada a Carla quale mia moglie. È certo che io, dopo la domanda di matrimonio fattale dal maestro, sentivo il bisogno di vincolare meglio la mia amante a me e può essere abbia creduto che quanto piú bella avesse trovata mia moglie, tanto piú avrebbe apprezzato l'uomo che le sacrificava (per modo di dire) una donna simile. Augusta in quel tempo non era altro che una buona balia sanissima. Può avere influito sulla mia decisione anche la prudenza. Avevo certamente ragione di temere gli umori della mia amante e se essa si fosse lasciata trascinare a qualche atto inconsulto con Ada, ciò non avrebbe avuto importanza visto che questa m'aveva già dato prova che mai avrebbe tentato di diffamarmi presso mia moglie.
671 Se Carla m'avesse compromesso con Ada, a questa avrei raccontato tutto e per dire il vero con una certa soddisfazione.
672 Ma la mia politica ebbe un esito non prevedibile davvero. Indottovi da una certa ansietà, andai la mattina appresso da Carla piú di buon'ora del solito. La trovai mutata del tutto dal giorno prima. Una grande serietà aveva invaso il nobile ovale della sua faccina. Volli baciarla, ma essa mi respinse eppoi si lasciò sfiorare dalle mie labbra le guancie, tanto per indurmi a starla ad ascoltare docilmente. Sedetti a lei di faccia dall'altra parte del tavolo. Essa, senza troppo affrettarsi, prese un foglio di carta su cui fino al mio arrivo aveva scritto e lo ripose fra certa musica che giaceva sul tavolo. Io a quel foglio non feci attenzione e solo piú tardi appresi ch'era una lettera ch'essa scriveva al Lali.
673 Eppure io ora so che persino in quel momento l'animo di Carla era conteso da dubbi. Il suo occhio serio si posava su di me indagando; poi lo rivolgeva alla luce della finestra per meglio isolarsi e studiare il proprio animo. Chissà! Se avessi subito indovinato meglio quello che in lei si dibatteva, avrei potuto ancora conservarmi la mia deliziosa amante.
674 Mi raccontò del suo incontro con Ada. L'aveva attesa dinanzi alla casa di mia suocera e, quando la vide arrivare, subito la riconobbe.
675 Non c'era il caso di sbagliare. Tu me l'avevi descritta nei suoi tratti piú importanti. Oh! Tu la conosci bene!
676 Tacque per un istante per dominare la commozione che le chiudeva la gola. Poi continuò:
677 Io non so quello che ci sia stato fra di voi, ma io non voglio mai piú tradire quella donna tanto bella e tanto triste! E scrivo oggi al maestro di canto che sono pronta a sposarlo!
678 Triste! - gridai io sorpreso. - Tu t'inganni, oppure in quel momento essa avrà sofferto per una scarpa troppo stretta.
679 Ada triste! Se rideva e sorrideva sempre; anche quella stessa mattina in cui l'avevo vista per un istante a casa mia.
680 Ma Carla era meglio informata di me:
681 Una scarpa stretta! Essa aveva il passo di una dea quando cammina sulle nubi!
682 Mi raccontò sempre piú commossa che aveva saputo farsi rivolgere una parola - oh! dolcissima! - da Ada. Questa aveva lasciato cadere il suo fazzoletto e Carla lo raccolse e glielo porse.
683 La sua breve parola di ringraziamento commosse Carla fino alle lacrime. Ci fu poi dell'altro ancora fra le due donne: Carla asseriva che Ada avesse anche notato ch'essa piangeva e che si fosse divisa da lei con un'occhiata accorata di solidarietà. Per Carla tutto era chiaro: mia moglie sapeva ch'io la tradivo e ne soffriva! Da ciò il proposito di non vedermi piú e di sposare il Lali.
684 Non sapevo come difendermi! M'era facile di parlare con piena antipatia di Ada ma non di mia moglie, la sana balia che non s'accorgeva affatto di quello che avveniva nell'animo mio, tutt'intenta com'era al suo ministero. Domandai a Carla se essa non avesse notata la durezza dell'occhio di Ada, e se non si fosse accorta che la sua voce era bassa e rude, priva di alcuna dolcezza. Per riavere subito l'amore di Carla, io ben volentieri avrei attribuiti a mia moglie molti altri delitti, ma non si poteva perché, da un anno circa, io con la mia amante non facevo altro che portarla ai sette cieli.
685 Mi salvai altrimenti. Fui preso io stesso da una grande emozione che mi spinse le lagrime agli occhi. Mi pareva di poter legittimamente commiserarmi. Senza volerlo, m'ero gettato in un ginepraio in cui mi sentivo infelicissimo. Quella confusione fra Ada e Augusta era insopportabile. La verità era che mia moglie non era tanto bella e che Ada (era di lei che Carla si prendeva di tanta compassione) aveva avuti dei grandi torti verso di me. Perciò Carla era veramente ingiusta nel giudicarmi.
686 Le mie lacrime resero Carla piú mite:
687 Dario caro! Come mi fanno bene le tue lacrime! Dev'esserci stato qualche malinteso fra voi due e importa ora di chiarirlo. Io non voglio giudicarti troppo severamente, ma io non tradirò mai piú quella donna, né voglio essere io la causa delle sue lacrime. L'ho giurato!
688 Ad onta del giuramento essa finí col tradirla per l'ultima volta. Avrebbe voluto dividersi da me per sempre con un ultimo bacio, ma io quel bacio lo accordavo in un'unica forma, altrimenti me ne sarei andato pieno di rancore. Perciò essa si rassegnò. Mormoravamo ambedue
689 Per l'ultima volta!
690 Fu un istante delizioso. Il proposito fatto a due aveva un'efficacia che cancellava qualsiasi colpa. Eravamo innocenti e beati! Il mio benevolo destino m'aveva riservato un istante di felicità perfetta.
691 Mi sentivo tanto felice che continuai la commedia fino al momento di dividerci. Non ci saremmo visti mai piú. Essa rifiutò la busta che portavo sempre nella mia tasca e non volle neppure un ricordo mio.
692 Bisognava cancellare dalla nostra nuova vita ogni traccia dei trascorsi passati. Allora la baciai volentieri paternamente sulla fronte com'essa aveva voluto prima.
693 Poi, sulle scale, ebbi un'esitazione perché la cosa si faceva un poco troppo seria mentre se avessi saputo ch'essa la dimane sarebbe stata tuttavia a mia disposizione, il pensiero al futuro non mi sarebbe venuto cosí presto. Essa, dal suo pianerottolo, mi guardava scendere ed io, un po' ridendo, le gridai:
694 A domani!
695 Essa si ritrasse sorpresa e quasi spaventata e si allontanò dicendo:
696 Mai piú!
697 Io mi sentii tuttavia sollevato di aver osato di dire la parola che poteva avviarmi ad un altro ultimo abbraccio quando l'avrei desiderato.
698 Privo di desiderii e privo d'impegni, passai tutta una bella giornata con mia moglie eppoi nell'ufficio di Guido. Devo dire che la mancanza d'impegni m'avvicinava a mia moglie e a mia figlia. Ero per loro qualche cosa piú del solito: non solo gentile, ma un vero padre che dispone e comanda serenamente, tutta la mente rivolta alla sua casa. Andando a letto mi dissi in forma di proponimento:
699 Tutte le giornate dovrebbero somigliare a questa.
700 Prima di addormentarsi, Augusta sentí il bisogno di confidarmi un grande segreto: essa lo aveva saputo dalla madre quel giorno stesso. Alcuni giorni prima Ada aveva sorpreso Guido mentre abbracciava una loro domestica. Ada aveva voluto fare la superba, ma poi la fantesca s'era fatta insolente e Ada l'aveva messa alla porta. Il giorno prima erano stati ansiosi di sentire come Guido avrebbe presa la cosa. Se si fosse lagnato, Ada avrebbe domandata la separazione. Ma Guido aveva riso e protestato che Ada non aveva visto bene; però non aveva niente in contrario che, anche innocente, quella donna, per cui diceva di sentire una sincera antipatia, fosse stata allontanata di casa. Pareva che ora le cose si fossero appianate.
701 A me importava di sapere se Ada avesse avute le traveggole quando aveva sorpreso il marito in quella posizione. C'era ancora la possibilità di un dubbio? Perché bisognava ricordare che quando due s'abbracciano, hanno tutt'altra posizione che quando l'una netta le scarpe dell'altro. Ero di ottimo umore. Sentivo persino il bisogno di dimostrarmi giusto e sereno nel giudicare Guido. Ada era certamente di carattere geloso e poteva avvenire ch'essa avesse viste diminuite le distanze e spostate le persone.
702 Con voce accorata Augusta mi disse ch'essa era sicura che Ada aveva visto bene e che ora per troppo affetto giudicava male. Aggiunse:
703 Essa avrebbe fatto ben meglio di sposare te!
704 Io, che mi sentivo sempre piú innocente, le regalai la frase:
705 Sta a vedere se io avrei fatto un miglior affare sposando lei invece di te!
706 Poi, prima d'addormentarmi, mormorai:
707 Una bella canaglia! Insudiciare cosí la propria casa!
708 Ero abbastanza sincero di rimproverargli esattamente quella parte della sua azione ch'io non avevo da rimproverare a me stesso.
709 La mattina appresso io mi levai col desiderio vivo che almeno quella prima giornata avesse a somigliare esattamente a quella precedente. Era probabile che i proponimenti deliziosi del giorno prima non avrebbero impegnata Carla piú di me, ed io me ne sentivo del tutto libero. Erano stati troppo belli per essere impegnativi. Certo l'ansia di sapere quello che ne pensasse Carla mi faceva correre. Il mio desiderio sarebbe stato di trovarla pronta per un altro proponimento. La vita sarebbe corsa via, ricca bensí di godimenti, ma anche piú di sforzi per migliorarsi, ed ogni mio giorno sarebbe stato dedicato in gran parte al bene ed in piccolissima al rimorso. L'ansia c'era, perché in tutto quell'anno per me tanto ricco di propositi, Carla non ne aveva avuto che uno: dimostrare di volermi bene. L'aveva mantenuto e c'era una certa difficoltà d'inferirne se ora le sarebbe stato facile di tenere il nuovo proposito che rompeva il vecchio.
710 Carla non c'era a casa. Fu una grande disillusione e mi morsi le dita dal dispiacere. La vecchia mi fece entrare in cucina. Mi raccontò che Carla sarebbe ritornata prima di sera. Le aveva detto che avrebbe mangiato fuori e perciò su quel focolare non c'era neppure quel piccolo fuoco che vi ardeva di solito:
711 Lei non lo sapeva? - mi domandò la vecchia facendo gli occhi grandi per la sorpresa.
712 Pensieroso e distratto, mormorai:
713 Ieri lo sapevo. Non ero però sicuro che la comunicazione di Carla valesse proprio per oggi.
714 Me ne andai dopo di aver salutato gentilmente. Digrignavo i denti, ma di nascosto. Ci voleva del tempo per darmi il coraggio di arrabbiarmi pubblicamente. Entrai nel Giardino Pubblico e vi passeggiai per una mezz'ora per prendermi il tempo d'intendere meglio le cose. Erano tanto chiare che non ci capivo piú niente. Tutt'ad un tratto, senz'alcuna pietà, venivo costretto di tenere un proposito simile. Stavo male, realmente male. Zoppicavo e lottavo anche con una specie di affanno. Io ne ho di quegli affanni: respiro benissimo, ma conto i singoli respiri, perché devo farli uno dopo l'altro di proposito. Ho la sensazione che se non stessi attento, morrei soffocato.
715 A quell'ora avrei dovuto andare al mio ufficio o meglio a quello di Guido. Ma non era possibile di allontanarmi cosí da quel posto. Che cosa avrei fatto poi? Ben dissimile era questa dalla giornata precedente! Almeno avessi conosciuto l'indirizzo di quel maledetto maestro che a forza di cantare a mie spese m'aveva portata via la mia amante.
716 Finii col ritornare dalla vecchia. Avrei trovata una parola da mandare a Carla per indurla a rivedermi. Già il piú difficile era di averla al piú presto a tiro. Il resto non avrebbe offerto delle grandi difficoltà.
717 Trovai la vecchia seduta accanto ad una finestra della cucina intenta a rammendare una calza. Essa si levò gli occhiali e, quasi timorosa, mi mandò uno sguardo interrogatore. Io esitai! Poi le domandai:
718 Lei sa che Carla ha deciso di sposare il Lali?
719 A me pareva di raccontare tale nuova a me stesso. Carla me l'aveva detta ben due volte, ma io il giorno prima vi avevo fatta poca attenzione. Quelle parole di Carla avevano colpito l'orecchio e ben chiaramente perché ve le avevo ritrovate, ma erano scivolate via senza penetrare oltre. Adesso appena arrivavano ai visceri che si contorcevano dal dolore.
720 La vecchia mi guardò anch'essa esitante. Certamente aveva paura di commettere delle indiscrezioni che avrebbero potuto esserle rimproverate. Poi scoppiò, tutta gioia evidente:
721 Glielo ha detto Carla? Allora dovrebbe essere cosí! Io credo che farebbe bene! Che cosa gliene sembra a lei?
722 Ora rideva di gusto, la maledetta vecchia, che io avevo sempre creduto informata dei miei rapporti con Carla. L'avrei picchiata volentieri, ma poi mi limitai a dire che prima avrei atteso che il maestro si facesse una posizione. A me, insomma, pareva che la cosa fosse precipitata.
723 Nella sua gioia la signora divenne per la prima volta loquace con me. Non era del mio parere. Quando ci si sposava da giovani, si doveva fare la carriera dopo di essersi sposati.
724 Perché occorreva farla prima? Carla aveva cosí pochi bisogni. La sua voce, ora, sarebbe costata meno, visto che nel marito avrebbe avuto il maestro.
725 Queste parole che potevano significare un rimprovero alla mia avarizia, mi diedero un'idea che mi parve magnifica e che per il momento mi sollevò. Nel plico che portavo sempre nella mia tasca di petto, doveva esserci oramai un bell'importo. Lo trassi di tasca, lo chiusi e lo consegnai alla vecchia perché lo desse a Carla. Avevo forse anche il desiderio di pagare finalmente in modo decoroso la mia amante, ma il desiderio piú forte era di rivederla e riaverla. Carla m'avrebbe rivisto tanto nel caso in cui avesse voluto restituirmi il denaro quanto in quello in cui le fosse stato comodo di tenerlo, perché allora avrebbe sentito il bisogno di ringraziarmi. Respirai: tutto non era ancora finito per sempre!
726 Dissi alla vecchia che la busta conteneva poco denaro residuo di quello consegnatomi per loro dagli amici del povero Copler. Poi, molto rasserenato, mandai a dire a Carla che io restavo il suo buon amico per tutta la vita e che, se essa avesse avuto bisogno di un appoggio, avrebbe potuto rivolgersi liberamente a me. Cosí potei mandarle il mio indirizzo ch'era quello dell'ufficio di Guido.
727 Partii con un passo molto piú elastico di quello che m'aveva condotto colà.
728 Ma quel giorno ebbi un violento litigio con Augusta. Si trattava di cosa da poco. Io dicevo che la minestra era troppo salata ed essa pretendeva di no. Ebbi un accesso folle d'ira perché mi sembrava ch'essa mi deridesse e trassi a me con violenza la tovaglia cosí che tutte le stoviglie dalla tavola volarono a terra. La piccina ch'era in braccio della bambinaia si mise a strillare, ciò che mi mortificò grandemente perché la piccola bocca sembrava mi rimproverasse. Augusta impallidí come sapeva impallidire lei, prese la fanciulla in braccio e uscí. A me parve che anche il suo fosse un eccesso: mi avrebbe ora lasciato mangiare solo come un cane? Ma subito essa, senza la bambina, rientrò, riapparecchiò la tavola, sedette dinanzi al proprio piatto nel quale mosse il cucchiaio come se avesse voluto accingersi a mangiare.
729 Io, fra me e me, bestemmiavo, ma già sapevo d'essere stato un giocattolo in mano di forze sregolate della natura. La natura che non trovava difficoltà nell'accumularle, ne trovava ancor meno nello scatenarle. Le mie bestemmie andavano ora contro Carla che fingeva di agire solo a vantaggio di mia moglie. Ecco come me l'aveva conciata!
730 Augusta, per un sistema cui rimase fedele fino ad oggi, quando mi vede in quelle condizioni, non protesta, non piange, non discute. Quand'io mitemente mi misi a domandarle scusa, essa volle spiegare una cosa: non aveva riso, aveva soltanto sorriso nello stesso modo che m'era piaciuto tante volte e che tante volte avevo vantato.
731 Mi vergognai profondamente. Supplicai che la bambina fosse portata subito con noi e quando l'ebbi fra le mie braccia, lungamente giuocai con lei. Poi la feci sedere sulla mia testa e sotto la sua vesticciuola che mi copriva la faccia, asciugai i miei occhi che s'erano bagnati delle lacrime che Augusta non aveva sparse.
732 Giocavo con la bambina, sapendo che cosí, senz'abbassarmi a fare delle scuse, mi riavvicinavo ad Augusta e infatti le sue guancie avevano già riacquistato il loro colore consueto.
733 Poi anche quella giornata finí molto bene e il pomeriggio somigliò a quello precedente. Era proprio la stessa cosa come se alla mattina avessi trovata Carla al solito posto. Non m'era mancato lo sfogo. Avevo ripetutamente domandato scusa perché dovevo indurre Augusta di ritornare al suo sorriso materno quando dicevo o facevo delle bizzarrie. Guai se avesse dovuto forzarsi ad avere in mia presenza un dato contegno o se avesse dovuto sopprimere anche uno dei soliti suoi sorrisi affettuosi che mi parevano il giudizio piú completo e benevolo che si potesse dare su me.
734 Alla sera riparlammo di Guido. Pareva che la sua pace con Ada fosse completa. Augusta si meravigliava della bontà di sua sorella. Questa volta però toccava a me di sorridere perché era evidente ch'ella non ricordava la propria bontà che era enorme. Le domandai:
735 E se io insudiciassi la nostra casa, non mi perdoneresti? - Ella esitò:
736 Noi abbiamo la nostra bambina, - esclamò - mentre Ada non ha dei figliuoli che la leghino a quell'uomo.
737 Ella non amava Guido; penso talvolta che gli tenesse rancore perché m'aveva fatto soffrire.
738 Pochi mesi dopo, Ada regalò a Guido due gemelli e Guido non comprese mai perché gli facessi delle congratulazioni tanto calorose. Ecco che avendo dei figlioli, anche secondo il giudizio di Augusta, le serve di casa potevano essere sue senza pericolo per lui.
739 Alla mattina seguente, però, quando in ufficio trovai sul mio tavolo una busta al mio indirizzo scritto da Carla, respirai. Ecco che niente era finito e che si poteva continuare a vivere munito di tutti gli elementi necessarii. In brevi parole Carla mi dava un appuntamento per le undici della mattina al Giardino Pubblico, all'ingresso posto di faccia alla sua casa. Ci saremmo trovati non nella sua stanza, ma tuttavia in un posto vicinissimo alla stessa.
740 Non seppi aspettare e arrivai all'appuntamento un quarto d'ora prima. Se Carla non fosse stata al posto indicato, io mi sarei recato dritto dritto a casa sua, ciò che sarebbe stato ben piú comodo.
741 Anche quella era una giornata pregna della nuova primavera dolce e luminosa. Quando abbandonai la rumorosa Corsia Stadion ed entrai nel giardino, mi trovai nel silenzio della campagna che non si può dire interrotto dal lieve, continuo stormire delle piante lambite dalla brezza.
742 Con passo celere m'avviavo ad uscire dal giardino quando Carla mi venne incontro. Aveva in mano la mia busta e mi si avvicinava senza un sorriso di saluto, anzi con una rigida decisione sulla faccina pallida. Portava un semplice vestito di tela dal tessuto grosso traversato da striscie azzurre, che le stava molto bene. Pareva anch'essa una parte del giardino. Piú tardi, nei momenti in cui piú la odiai, le attribuii l'intenzione di essersi vestita cosí per rendersi piú desiderabile nel momento stesso in cui mi si rifiutava. Era invece il primo giorno di primavera che la vestiva. Bisogna anche ricordare che nel mio lungo ma brusco amore, l'adornamento della mia donna aveva avuto piccolissima parte.
743 Io ero sempre andato direttamente a quella sua stanza da studio, e le donne modeste sono proprio molto semplici quando restano in casa.
744 Essa mi porse la mano ch'io strinsi dicendole:
745 Ti ringrazio di essere venuta!
746 Come sarebbe stato piú decoroso per me se durante tutto quel colloquio io fossi rimasto cosí mite!
747 Carla pareva commossa e, quando parlava, una specie di convulso le faceva tremare le labbra. Talvolta anche nel cantare quel movimento delle labbra le impediva la nota. Mi disse:
748 Vorrei compiacerti e accettare da te questo denaro, ma non posso, assolutamente non posso. Te ne prego, riprendilo.
749 Vedendola vicina alle lacrime, subito la compiacqui prendendo la busta che mi ritrovai poi in mano, lungo tempo dopo di aver abbandonato quel luogo.
750 Veramente non ne vuoi piú sapere di me?
751 Feci questa domanda non pensando ch'essa vi aveva risposto il giorno prima. Ma era possibile che, desiderabile come la vedevo, essa si contendesse a me?
752 Zeno! - rispose la fanciulla con qualche dolcezza, - non avevamo noi promesso che non ci saremmo rivisti mai piú? In seguito a quella nostra promessa ho assunti degl'impegni che somigliano a quelli che tu avevi già prima di conoscermi. Sono altrettanto sacri dei tuoi. Io spero che a quest'ora tua moglie si sarà accorta che sei tutto suo.
753 Nel suo pensiero continuava dunque ad avere importanza la bellezza di Ada. Se io fossi stato sicuro che il suo abbandono era causato da lei, avrei avuto il modo di correre al riparo. Le avrei fatto sapere che Ada non era mia moglie e le avrei fatto vedere Augusta col suo occhio sbilenco e la sua figura di balia sana. Ma non erano oramai piú importanti gl'impegni presi da lei? Bisognava discutere quelli.
754 Cercai di parlare calmo mentre anche a me le labbra tremavano, ma dal desiderio. Le raccontai che ancora ella non sapeva quanto mia essa fosse e come non avesse piú il diritto di disporre di sé. Nella mia testa si moveva la prova scientifica di quanto volevo dire, cioè quel celebre esperimento di Darwin su una cavalla araba, ma, grazie al Cielo, sono quasi sicuro di non averne parlato. Devo però aver parlato di bestie e della loro fedeltà fisica, in un balbettio senza senso. Abbandonai poi gli argomenti piú difficili che non erano accessibili né a lei né a me in quel momento e dissi: - Quali impegni puoi avere presi? E quale importanza possono avere in confronto a un affetto come quello che ci legò per piú di un anno?
755 L'afferrai rudemente per la mano sentendo il bisogno di un atto energico, non trovando nessuna parola che sapesse supplirvi.
756 Essa si levò con tanta energia dalla mia stretta come se fosse stata la prima volta ch'io mi fossi permessa una cosa simile.
757 Mai disse con l'atteggiamento di chi giura - ho preso un impegno piú sacro! L'ho preso con un uomo che a sua volta ne assunse uno identico verso di me.
758 Non v'era dubbio! Il sangue che le colorí improvvisamente le guancie vi era spinto dal rancore per l'uomo che verso di lei non aveva assunto alcun impegno. E si spiegò anche meglio:
759 Ieri abbiamo camminato per le strade, uno a braccio dell'altra in compagnia di sua madre.
762 Tutto il giorno Efix, il servo delle dame Pintor, aveva lavorato a rinforzare l'argine primitivo da lui stesso costruito un po' per volta a furia d'anni e di fatica, giù in fondo al poderetto lungo il fiume: e al cader della sera contemplava la sua opera dall'alto, seduto davanti alla capanna sotto il ciglione glauco di canne a mezza costa sulla bianca Collina dei Colombi.
763 Eccolo tutto ai suoi piedi, silenzioso e qua e là scintillante d'acque nel crepuscolo, il poderetto che Efix considerava più suo che delle sue padrone: trent'anni di possesso e di lavoro lo han fatto ben suo, e le siepi di fichi d'India che lo chiudono dall'alto in basso come due muri grigi serpeggianti di scaglione in scaglione dalla collina al fiume, gli sembrano i confini del mondo.
764 Il servo non guardava al di là del poderetto anche perché i terreni da una parte e dall'altra erano un tempo appartenuti alle sue padrone: perché ricordare il passato? Rimpianto inutile. Meglio pensare all'avvenire e sperare nell'aiuto di Dio.
765 E Dio prometteva una buona annata, o per lo meno faceva ricoprir di fiori tutti i mandorli e i peschi della valle; e questa, fra due file di colline bianche, con lontananze cerule di monti ad occidente e di mare ad oriente, coperta di vegetazione primaverile, d'acque, di macchie, di fiori, dava l'idea di una culla gonfia di veli verdi, di nastri azzurri, col mormorìo del fiume monotono come quello di un bambino che s'addormentava.
766 Ma le giornate eran già troppo calde ed Efix pensava anche alle piogge torrenziali che gonfiano il fiume senz'argini e lo fanno balzare come un mostro e distruggere ogni cosa: sperare, sì, ma non fidarsi anche; star vigili come le canne sopra il ciglione che ad ogni soffio di vento si battono l'una all'altra le foglie come per avvertirsi del pericolo.
767 Per questo aveva lavorato tutto il giorno e adesso, in attesa della notte, mentre per non perder tempo intesseva una stuoia di giunchi, pregava perché Dio rendesse valido il suo lavoro. Che cosa è un piccolo argine se Dio non lo rende, col suo volere, formidabile come una montagna?
768 Sette giunchi attraverso un vimine, dunque, e sette preghiere al Signore ed a Nostra Signora del Rimedio, benedetta ella sia, ecco laggiù nell'estremo azzurro del crepuscolo la chiesetta e il recinto di capanne quieto come un villaggio preistorico abbandonato da secoli. A quell'ora, mentre la luna sbocciava come una grande rosa fra i cespugli della collina e le euforbie odoravano lungo il fiume, anche le padrone di Efix pregavano: donna Ester la più vecchia, benedetta ella sia, si ricordava certo di lui peccatore: bastava questo perché egli si sentisse contento, compensato delle sue fatiche.
769 Un passo in lontananza gli fece sollevar gli occhi. Gli sembrò di riconoscerlo; era un passo rapido e lieve di fanciullo, passo d'angelo che corre ad annunziare le cose liete e le tristi. Sia fatto il volere di Dio: è lui che manda le buone e le cattive notizie; ma il cuore cominciò a tremargli, ed anche le dita nere screpolate tremarono coi giunchi argentei lucenti alla luna come fili d'acqua.
770 Il passo non s'udiva più: Efix tuttavia rimase ancora là, immobile ad aspettare.
771 La luna saliva davanti a lui, e le voci della sera avvertivano l'uomo che la sua giornata era finita. Era il grido cadenzato del cuculo, il zirlio dei grilli precoci, qualche gemito d'uccello; era il sospiro delle canne e la voce sempre più chiara del fiume: ma era soprattutto un soffio, un ansito misterioso che pareva uscire dalla terra stessa; sì, la giornata dell'uomo lavoratore era finita, ma cominciava la vita fantastica dei folletti, delle fate, degli spiriti erranti. I fantasmi degli antichi Baroni scendevano dalle rovine del castello sopra il paese di Galte, su, all'orizzonte a sinistra di Efix, e percorrevano le sponde del fiume alla caccia dei cinghiali e delle volpi: le loro armi scintillavano in mezzo ai bassi ontani della riva, e l'abbaiar fioco dei cani in lontananza indicava il loro passaggio.
772 Efix sentiva il rumore che le panas1 facevano nel lavar i loro panni giù al fiume, battendoli con uno stinco di morto e credeva di intraveder l'ammattadore , folletto con sette berretti entro i quali conserva un tesoro, balzar di qua e di là sotto il bosco di mandorli, inseguito dai vampiri con la coda di acciaio.
773 Era il suo passaggio che destava lo scintillio dei rami e delle pietre sotto la luna: e agli spiriti maligni si univano quelli dei bambini non battezzati, spiriti bianchi che volavano per aria tramutandosi nelle nuvolette argentee dietro la luna: e i nani e le janas , piccole fate che durante la giornata stanno nelle loro case di roccia a tesser stoffe d'oro in telai d'oro, ballavano all'ombra delle grandi macchie di filirèa, mentre i giganti s'affacciavano fra le rocce dei monti battuti dalla luna, tenendo per la briglia gli enormi cavalli verdi che essi soltanto sanno montare, spiando se laggiù fra le distese d'euforbia malefica si nascondeva qualche drago o se il leggendario serpente cananèa , vivente fin dai tempi di Cristo, strisciava sulle sabbie intorno alla palude.
774 Specialmente nelle notti di luna tutto questo popolo misterioso anima le colline e le valli: l'uomo non ha diritto a turbarlo con la sua presenza, come gli spiriti han rispettato lui durante il corso del sole; è dunque tempo di ritirarsi e chiuder gli occhi sotto la protezione degli angeli custodi.
775 Efix si fece il segno della croce e si alzò: ma aspettava ancora che qualcuno arrivasse. Tuttavia spinse l'asse che serviva da porticina e vi appoggiò contro una gran croce di canne che doveva impedire ai folletti e alle tentazioni di penetrare nella capanna.
776 Il chiarore della luna illuminava attraverso le fessure la stanza stretta e bassa agli angoli, ma abbastanza larga per lui che era piccolo e scarno come un adolescente. Dal tetto a cono, di canne e giunchi, che copriva i muri a secco e aveva un foro nel mezzo per l'uscita del fumo, pendevano grappoli di cipolle e mazzi d'erbe secche, croci di palma e rami d'ulivo benedetto, un cero dipinto, una falce contro i vampiri e un sacchetto di orzo contro le panas : ad ogni soffio tutto tremava e i fili dei ragni lucevano alla luna. Giù per terra la brocca riposava con le sue anse sui fianchi e la pentola capovolta le dormiva accanto.
777 Efix preparò la stuoia, ma non si coricò. Gli sembrava sempre di sentire il rumore dei passi infantili: qualcuno veniva di certo e infatti a un tratto i cani cominciarono ad abbaiare nei poderi vicini, e tutto il paesaggio che pochi momenti prima pareva si fosse addormentato fra il mormorio di preghiera delle voci notturne, fu pieno di echi e di fremiti quasi si svegliasse di soprassalto.
778 Efix riaprì. Una figura nera saliva attraverso la china ove già le fave basse ondulavano argentee alla luna, ed egli, a cui durante la notte anche le figure umane parevan misteriose, si fece di nuovo il segno della croce. Ma una voce conosciuta lo chiamò: era la voce fresca ma un po' ansante di un ragazzo che abitava accanto alla casa delle dame Pintor.
782 Rivelazione di Gesù Cristo che Dio gli diede per render noto ai suoi servi le cose che devono presto accadere, e che egli manifestò inviando il suo angelo al suo servo Giovanni. Questi attesta la parola di Dio e la testimonianza di Gesù Cristo, riferendo ciò che ha visto. Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e mettono in pratica le cose che vi sono scritte. Perché il tempo è vicino.
783 Giovanni alle sette Chiese che sono in Asia: grazia a voi e pace da Colui che è, che era e che viene, dai sette spiriti che stanno davanti al suo trono, e da Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti e il principe dei re della terra.
784 A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.
785 Ecco, viene sulle nubi e ognuno lo vedrà; anche quelli che lo trafissero e tutte le nazioni della terra si batteranno per lui il petto.
786 Sì, Amen!
787 Io sono l'Alfa e l'Omega, dice il Signore Dio, Colui che è, che era e che viene, l'Onnipotente!
788 Io, Giovanni, vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione, nel regno e nella costanza in Gesù, mi trovavo nell'isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza resa a Gesù. Rapito in estasi, nel giorno del Signore, udii dietro di me una voce potente, come di tromba, che diceva: Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette Chiese: a Èfeso, a Smirne, a Pèrgamo, a Tiàtira, a Sardi, a Filadèlfia e a Laodicèa. Ora, come mi voltai per vedere chi fosse colui che mi parlava, vidi sette candelabri d'oro e in mezzo ai candelabri c'era uno simile a figlio di uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d'oro. I capelli della testa erano candidi, simili a lana candida, come neve. Aveva gli occhi fiammeggianti come fuoco, i piedi avevano l'aspetto del bronzo splendente purificato nel crogiuolo. La voce era simile al fragore di grandi acque. Nella destra teneva sette stelle, dalla bocca gli usciva una spada affilata a doppio taglio e il suo volto somigliava al sole quando splende in tutta la sua forza.
789 Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la destra, mi disse: Non temere! Io sono il Primo e l'Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi. Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle che sono e quelle che accadranno dopo. Questo è il senso recondito delle sette stelle che hai visto nella mia destra e dei sette candelabri d'oro, eccolo: le sette stelle sono gli angeli delle sette Chiese e le sette lampade sono le sette Chiese.
790 Così parla Colui che tiene le sette stelle nella sua destra e cammina in mezzo ai sette candelabri d'oro: Conosco le tue opere, la tua fatica e la tua costanza, per cui non puoi sopportare i cattivi; li hai messi alla prova - quelli che si dicono apostoli e non lo sono - e li hai trovati bugiardi. Sei costante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti. Ho però da rimproverarti che hai abbandonato il tuo amore di prima. Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti e compi le opere di prima. Se non ti ravvederai, verrò da te e rimuoverò il tuo candelabro dal suo posto. Tuttavia hai questo di buono, che detesti le opere dei Nicolaìti, che anch'io detesto.
791 Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese: Al vincitore darò da mangiare dell'albero della vita, che sta nel paradiso di Dio.
792 Così parla il Primo e l'Ultimo, che era morto ed è tornato alla vita: Conosco la tua tribolazione, la tua povertà - tuttavia sei ricco - e la calunnia da parte di quelli che si proclamano Giudei e non lo sono, ma appartengono alla sinagoga di satana. Non temere ciò che stai per soffrire: ecco, il diavolo sta per gettare alcuni di voi in carcere, per mettervi alla prova e avrete una tribolazione per dieci giorni. Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona della vita.
793 Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese: Il vincitore non sarà colpito dalla seconda morte.
794 Così parla Colui che ha la spada affilata a due tagli: So che abiti dove satana ha il suo trono; tuttavia tu tieni saldo il mio nome e non hai rinnegato la mia fede neppure al tempo in cui Antìpa, il mio fedele testimone, fu messo a morte nella vostra città, dimora di satana. Ma ho da rimproverarti alcune cose: hai presso di te seguaci della dottrina di Balaàm, il quale insegnava a Balak a provocare la caduta dei figli d'Israele, spingendoli a mangiare carni immolate agli idoli e ad abbandonarsi alla fornicazione. Così pure hai di quelli che seguono la dottrina dei Nicolaìti. Ravvediti dunque; altrimenti verrò presto da te e combatterò contro di loro con la spada della mia bocca.
795 Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese: Al vincitore darò la manna nascosta e una pietruzza bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all'infuori di chi la riceve.
796 Così parla il Figlio di Dio, Colui che ha gli occhi fiammeggianti come fuoco e i piedi simili a bronzo splendente. Conosco le tue opere, la carità, la fede, il servizio e la costanza e so che le tue ultime opere sono migliori delle prime. Ma ho da rimproverarti che lasci fare a Iezabèle, la donna che si spaccia per profetessa e insegna e seduce i miei servi inducendoli a darsi alla fornicazione e a mangiare carni immolate agli idoli. Io le ho dato tempo per ravvedersi, ma essa non si vuol ravvedere dalla sua dissolutezza. Ebbene, io getterò lei in un letto di dolore e coloro che commettono adulterio con lei in una grande tribolazione, se non si ravvederanno dalle opere che ha loro insegnato. Colpirò a morte i suoi figli e tutte le Chiese sapranno che io sono Colui che scruta gli affetti e i pensieri degli uomini, e darò a ciascuno di voi secondo le proprie opere. A voi di Tiàtira invece che non seguite questa dottrina, che non avete conosciuto le profondità di satana - come le chiamano - non imporrò altri pesi; ma quello che possedete tenetelo saldo fino al mio ritorno. Al vincitore che persevera sino alla fine nelle mie opere, darò autorità sopra le nazioni; le pascolerà con bastone di ferro e le frantumerà come vasi di terracotta,
797 con la stessa autorità che a me fu data dal Padre mio e darò a lui la stella del mattino. Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese.
798 Così parla Colui che possiede i sette spiriti di Dio e le sette stelle: Conosco le tue opere; ti si crede vivo e invece sei morto. Svegliati e rinvigorisci ciò che rimane e sta per morire, perché non ho trovato le tue opere perfette davanti al mio Dio. Ricorda dunque come hai accolto la parola, osservala e ravvediti, perché se non sarai vigilante, verrò come un ladro senza che tu sappia in quale ora io verrò da te. Tuttavia a Sardi vi sono alcuni che non hanno macchiato le loro vesti; essi mi scorteranno in vesti bianche, perché ne sono degni. Il vincitore sarà dunque vestito di bianche vesti, non cancellerò il suo nome dal libro della vita, ma lo riconoscerò davanti al Padre mio e davanti ai suoi angeli. Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese.
799 Così parla il Santo, il Verace, Colui che ha la chiave di Davide: quando egli apre nessuno chiude,      e quando chiude nessuno apre.
800 Conosco le tue opere. Ho aperto davanti a te una porta che nessuno può chiudere. Per quanto tu abbia poca forza, pure hai osservato la mia parola e non hai rinnegato il mio nome. Ebbene, ti faccio dono di alcuni della sinagoga di satana - di quelli che si dicono Giudei, ma mentiscono perché non lo sono -: li farò venire perché si prostrino ai tuoi piedi e sappiano che io ti ho amato. Poiché hai osservato con costanza la mia parola, anch'io ti preserverò nell'ora della tentazione che sta per venire sul mondo intero, per mettere alla prova gli abitanti della terra. Verrò presto. Tieni saldo quello che hai, perché nessuno ti tolga la corona. Il vincitore lo porrò come una colonna nel tempio del mio Dio e non ne uscirà mai più. Inciderò su di lui il nome del mio Dio e il nome della città del mio Dio, della nuova Gerusalemme che discende dal cielo, da presso il mio Dio, insieme con il mio nome nuovo. Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese.
801 Così parla l'Amen, il Testimone fedele e verace, il Principio della creazione di Dio: Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca. Tu dici: "Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla", ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo. Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, vesti bianche per coprirti e nascondere la vergognosa tua nudità e collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista. Io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo. Mostrati dunque zelante e ravvediti. Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me. Il vincitore lo farò sedere presso di me, sul mio trono, come io ho vinto e mi sono assiso presso il Padre mio sul suo trono. Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese.
802 Dopo ciò ebbi una visione: una porta era aperta nel cielo. La voce che prima avevo udito parlarmi come una tromba diceva: Sali quassù, ti mostrerò le cose che devono accadere in seguito. Subito fui rapito in estasi. Ed ecco, c'era un trono nel cielo, e sul trono uno stava seduto. Colui che stava seduto era simile nell'aspetto a diaspro e cornalina. Un arcobaleno simile a smeraldo avvolgeva il trono. Attorno al trono, poi, c'erano ventiquattro seggi e sui seggi stavano seduti ventiquattro vegliardi avvolti in candide vesti con corone d'oro sul capo. Dal trono uscivano lampi, voci e tuoni; sette lampade accese ardevano davanti al trono, simbolo dei sette spiriti di Dio. Davanti al trono vi era come un mare trasparente simile a cristallo. In mezzo al trono e intorno al trono vi erano quattro esseri viventi pieni d'occhi davanti e di dietro. Il primo vivente era simile a un leone, il secondo essere vivente aveva l'aspetto di un vitello, il terzo vivente aveva l'aspetto d'uomo, il quarto vivente era simile a un'aquila mentre vola. I quattro esseri viventi hanno ciascuno sei ali, intorno e dentro sono costellati di occhi; giorno e notte non cessano di ripetere:
806 E vidi nella mano destra di Colui che era assiso sul trono un libro a forma di rotolo, scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli. Vidi un angelo forte che proclamava a gran voce: "Chi è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli?". Ma nessuno né in cielo, né in terra, né sotto terra era in grado di aprire il libro e di leggerlo. Io piangevo molto perché non si trovava nessuno degno di aprire il libro e di leggerlo. Uno dei vegliardi mi disse: "Non piangere più; ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli".
807 Poi vidi ritto in mezzo al trono circondato dai quattro esseri viventi e dai vegliardi un Agnello, come immolato. Egli aveva sette corna e sette occhi, simbolo dei sette spiriti di Dio mandati su tutta la terra. E l'Agnello giunse e prese il libro dalla destra di Colui che era seduto sul trono. E quando l'ebbe preso, i quattro esseri viventi e i ventiquattro vegliardi si prostrarono davanti all'Agnello, avendo ciascuno un'arpa e coppe d'oro colme di profumi, che sono le preghiere dei santi. Cantavano un canto nuovo:
808 Allora venne data a ciascuno di essi una veste candida e fu detto loro di pazientare ancora un poco, finché fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli che dovevano essere uccisi come loro.
809 Quando l'Agnello aprì il sesto sigillo, vidi che vi fu un violento terremoto. Il sole divenne nero come sacco di crine, la luna diventò tutta simile al sangue, le stelle del cielo si abbatterono sopra la terra, come quando un fico, sbattuto dalla bufera, lascia cadere i fichi immaturi. Il cielo si ritirò come un volume che si arrotola e tutti i monti e le isole furono smossi dal loro posto. Allora i re della terra e i grandi, i capitani, i ricchi e i potenti, e infine ogni uomo, schiavo o libero, si nascosero tutti nelle caverne e fra le rupi dei monti; e dicevano ai monti e alle rupi: Cadete sopra di noi e nascondeteci dalla faccia di Colui che siede sul trono e dall'ira dell'Agnello, perché è venuto il gran giorno della loro ira, e chi vi può resistere?
810 Dopo ciò, vidi quattro angeli che stavano ai quattro angoli della terra, e trattenevano i quattro venti, perché non soffiassero sulla terra, né sul mare, né su alcuna pianta.
811 Vidi poi un altro angelo che saliva dall'oriente e aveva il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli ai quali era stato concesso il potere di devastare la terra e il mare: "Non devastate né la terra, né il mare, né le piante, finché non abbiamo impresso il sigillo del nostro Dio sulla fronte dei suoi servi".
812 Dopo ciò, apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all'Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani. E gridavano a gran voce:
813 Uno dei vegliardi allora si rivolse a me e disse: "Quelli che sono vestiti di bianco, chi sono e donde vengono?". Gli risposi: "Signore mio, tu lo sai". E lui: "Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello. Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo santuario; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro.
814 Quando l'Agnello aprì il settimo sigillo, si fece silenzio in cielo per circa mezz'ora. Vidi che ai sette angeli ritti davanti a Dio furono date sette trombe.
815 Poi venne un altro angelo e si fermò all'altare, reggendo un incensiere d'oro. Gli furono dati molti profumi perché li offrisse insieme con le preghiere di tutti i santi bruciandoli sull'altare d'oro, posto davanti al trono. E dalla mano dell'angelo il fumo degli aromi salì davanti a Dio, insieme con le preghiere dei santi. Poi l'angelo prese l'incensiere, lo riempì del fuoco preso dall'altare e lo gettò sulla terra: ne seguirono scoppi di tuono, clamori, fulmini e scosse di terremoto.
816 I sette angeli che avevano le sette trombe si accinsero a suonarle.
817 Appena il primo suonò la tromba, grandine e fuoco mescolati a sangue scrosciarono sulla terra. Un terzo della terra fu arso, un terzo degli alberi andò bruciato e ogni erba verde si seccò.
818 Il secondo angelo suonò la tromba: come una gran montagna di fuoco fu scagliata nel mare. Un terzo del mare divenne sangue, un terzo delle creature che vivono nel mare morì e un terzo delle navi andò distrutto.
819 Il terzo angelo suonò la tromba e cadde dal cielo una grande stella, ardente come una torcia, e colpì un terzo dei fiumi e le sorgenti delle acque. La stella si chiama Assenzio; un terzo delle acque si mutò in assenzio e molti uomini morirono per quelle acque, perché erano divenute amare.
820 Il quarto angelo suonò la tromba e un terzo del sole, un terzo della luna e un terzo degli astri fu colpito e si oscurò: il giorno perse un terzo della sua luce e la notte ugualmente.
821 Vidi poi e udii un'aquila che volava nell'alto del cielo e gridava a gran voce: "Guai, guai, guai agli abitanti della terra al suono degli ultimi squilli di tromba che i tre angeli sanno per suonare!".
822 Il quinto angelo suonò la tromba e vidi un astro caduto dal cielo sulla terra. Gli fu data la chiave del pozzo dell'Abisso; egli aprì il pozzo dell'Abisso e salì dal pozzo un fumo come il fumo di una grande fornace, che oscurò il sole e l'atmosfera. Dal fumo uscirono cavallette che si sparsero sulla terra e fu dato loro un potere pari a quello degli scorpioni della terra. E fu detto loro di non danneggiare né erba né arbusti né alberi, ma soltanto gli uomini che non avessero il sigillo di Dio sulla fronte. Però non fu concesso loro di ucciderli, ma di tormentarli per cinque mesi, e il tormento è come il tormento dello scorpione quando punge un uomo. In quei giorni gli uomini cercheranno la morte, ma non la troveranno; brameranno morire, ma la morte li fuggirà.
823 Queste cavallette avevano l'aspetto di cavalli pronti per la guerra. Sulla testa avevano corone che sembravano d'oro e il loro aspetto era come quello degli uomini. Avevano capelli, come capelli di donne, ma i loro denti erano come quelli dei leoni. Avevano il ventre simile a corazze di ferro e il rombo delle loro ali come rombo di carri trainati da molti cavalli lanciati all'assalto. Avevano code come gli scorpioni, e aculei. Nelle loro code il potere di far soffrire gli uomini per cinque mesi. ]Il loro re era l'angelo dell'Abisso, che in ebraico si chiama Perdizione, in greco Sterminatore.
824 Il primo "guai" è passato. Rimangono ancora due "guai" dopo queste cose.
825 Il sesto angelo suonò la tromba. Allora udii una voce dai lati dell'altare d'oro che si trova dinanzi a Dio. E diceva al sesto angelo che aveva la tromba: "Sciogli i quattro angeli incatenati sul gran fiume Eufràte". Furono sciolti i quattro angeli pronti per l'ora, il giorno, il mese e l'anno per sterminare un terzo dell'umanità. Il numero delle truppe di cavalleria era duecento milioni; ne intesi il numero. Così mi apparvero i cavalli e i cavalieri: questi avevano corazze di fuoco, di giacinto, di zolfo. Le teste dei cavalli erano come le teste dei leoni e dalla loro bocca usciva fuoco, fumo e zolfo. Da questo triplice flagello, dal fuoco, dal fumo e dallo zolfo che usciva dalla loro bocca, fu ucciso un terzo dell'umanità. La potenza dei cavalli infatti sta nella loro bocca e nelle loro code; le loro code sono simili a serpenti, hanno teste e con esse nuociono.
826 Il resto dell'umanità che non perì a causa di questi flagelli, non rinunziò alle opere delle sue mani; non cessò di prestar culto ai demòni e agli idoli d'oro, d'argento, di bronzo, di pietra e di legno, che non possono né vedere, né udire, né camminare; non rinunziò nemmeno agli omicidi, né alle stregonerie, né alla fornicazione, né alle ruberie.
827 Vidi poi un altro angelo, possente, discendere dal cielo, avvolto in una nube, la fronte cinta di un arcobaleno; aveva la faccia come il sole e le gambe come colonne di fuoco. Nella mano teneva un piccolo libro aperto. Avendo posto il piede destro sul mare e il sinistro sulla terra, gridò a gran voce come leone che ruggisce. E quando ebbe gridato, i sette tuoni fecero udire la loro voce. Dopoché i sette tuoni ebbero fatto udire la loro voce, io ero pronto a scrivere quando udii una voce dal cielo che mi disse: "Metti sotto sigillo quello che hanno detto i sette tuoni e non scriverlo".
828 Allora l'angelo che avevo visto con un piede sul mare e un piede sulla terra,
829 Poi la voce che avevo udito dal cielo mi parlò di nuovo: "Va', prendi il libro aperto dalla mano dell'angelo che sta ritto sul mare e sulla terra". Allora mi avvicinai all'angelo e lo pregai di darmi il piccolo libro. Ed egli mi disse: "Prendilo e divoralo; ti riempirà di amarezza le viscere, ma in bocca ti sarà dolce come il miele". Presi quel piccolo libro dalla mano dell'angelo e lo divorai; in bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l'ebbi inghiottito ne sentii nelle viscere tutta l'amarezza. Allora mi fu detto: "Devi profetizzare ancora su molti popoli, nazioni e re".
830 Poi mi fu data una canna simile a una verga e mi fu detto: "Alzati e misura il santuario di Dio e l'altare e il numero di quelli che vi stanno adorando. Ma l'atrio che è fuori del santuario, lascialo da parte e non lo misurare, perché è stato dato in balìa dei pagani, i quali calpesteranno la città santa per quarantadue mesi. Ma farò in modo che i miei due Testimoni, vestiti di sacco, compiano la loro missione di profeti per milleduecentosessanta giorni". Questi sono i due olivi e le due lampade che stanno davanti al Signore della terra. Se qualcuno pensasse di far loro del male, uscirà dalla loro bocca un fuoco che divorerà i loro nemici. Così deve perire chiunque pensi di far loro del male. Essi hanno il potere di chiudere il cielo, perché non cada pioggia nei giorni del loro ministero profetico. Essi hanno anche potere di cambiar l'acqua in sangue e di colpire la terra con ogni sorta di flagelli tutte le volte che lo vorranno. E quando poi avranno compiuto la loro testimonianza, la bestia che sale dall'Abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà. I loro cadaveri rimarranno esposti sulla piazza della grande città, che simbolicamente si chiama Sòdoma ed Egitto, dove appunto il loro Signore fu crocifisso. Uomini di ogni popolo, tribù, lingua e nazione vedranno i loro cadaveri per tre giorni e mezzo e non permetteranno che i loro cadaveri vengano deposti in un sepolcro. Gli abitanti della terra faranno festa su di loro, si rallegreranno e si scambieranno doni, perché questi due profeti erano il tormento degli abitanti della terra.
831 Ma dopo tre giorni e mezzo, un soffio di vita procedente da Dio entrò in essi e si alzarono in piedi, con grande terrore di quelli che stavano a guardarli. Allora udirono un grido possente dal cielo: "Salite quassù" e salirono al cielo in una nube sotto gli sguardi dei loro nemici. In quello stesso momento ci fu un grande terremoto che fece crollare un decimo della città: perirono in quel terremoto settemila persone; i superstiti presi da terrore davano gloria al Dio del cielo.
832 Così passò il secondo "guai"; ed ecco viene subito il terzo "guai".
833 Il settimo angelo suonò la tromba e nel cielo echeggiarono voci potenti che dicevano:
834 Allora si aprì il santuario di Dio nel cielo e apparve nel santuario l'arca dell'alleanza. Ne seguirono folgori, voci, scoppi di tuono, terremoto e una tempesta di grandine.
835 Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto. Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava giù un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire per divorare il bambino appena nato. Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e il figlio fu subito rapito verso Dio e verso il suo trono. La donna invece fuggì nel deserto, ove Dio le aveva preparato un rifugio perché vi fosse nutrita per milleduecentosessanta giorni.
836 Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme con i suoi angeli, ma non prevalsero e non ci fu più posto per essi in cielo. Il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra, fu precipitato sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli. Allora udii una gran voce nel cielo che diceva:
837 Or quando il drago si vide precipitato sulla terra, si avventò contro la donna che aveva partorito il figlio maschio. Ma furono date alla donna le due ali della grande aquila, per volare nel deserto verso il rifugio preparato per lei per esservi nutrita per un tempo, due tempi e la metà di un tempo lontano dal serpente. Allora il serpente vomitò dalla sua bocca come un fiume d'acqua dietro alla donna, per farla travolgere dalle sue acque. Ma la terra venne in soccorso alla donna, aprendo una voragine e inghiottendo il fiume che il drago aveva vomitato dalla propria bocca.
838 Allora il drago si infuriò contro la donna e se ne andò a far guerra contro il resto della sua discendenza, contro quelli che osservano i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù.
839 E si fermò sulla spiaggia del mare.
840 Vidi salire dal mare una bestia che aveva dieci corna e sette teste, sulle corna dieci diademi e su ciascuna testa un titolo blasfemo. La bestia che io vidi era simile a una pantera, con le zampe come quelle di un orso e la bocca come quella di un leone. Il drago le diede la sua forza, il suo trono e la sua potestà grande. Una delle sue teste sembrò colpita a morte, ma la sua piaga mortale fu guarita.
841 Allora la terra intera presa d'ammirazione, andò dietro alla bestia e gli uomini adorarono il drago perché aveva dato il potere alla bestia e adorarono la bestia dicendo: "Chi è simile alla bestia e chi può combattere con essa?".
842 Alla bestia fu data una bocca per proferire parole d'orgoglio e bestemmie, con il potere di agire per quarantadue mesi. Essa aprì la bocca per proferire bestemmie contro Dio, per bestemmiare il suo nome e la sua dimora, contro tutti quelli che abitano in cielo. Le fu permesso di far guerra contro i santi e di vincerli; le fu dato potere sopra ogni stirpe, popolo, lingua e nazione. L'adorarono tutti gli abitanti della terra, il cui nome non è scritto fin dalla fondazione del mondo nel libro della vita dell'Agnello immolato.
843 Vidi poi salire dalla terra un'altra bestia, che aveva due corna, simili a quelle di un agnello, che però parlava come un drago. Essa esercita tutto il potere della prima bestia in sua presenza e costringe la terra e i suoi abitanti ad adorare la prima bestia, la cui ferita mortale era guarita. Operava grandi prodigi, fino a fare scendere fuoco dal cielo sulla terra davanti agli uomini. Per mezzo di questi prodigi, che le era permesso di compiere in presenza della bestia, sedusse gli abitanti della terra dicendo loro di erigere una statua alla bestia che era stata ferita dalla spada ma si era riavuta. Le fu anche concesso di animare la statua della bestia sicché quella statua perfino parlasse e potesse far mettere a morte tutti coloro che non adorassero la statua della bestia. Faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che nessuno potesse comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome. Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d'uomo. E tal cifra è seicentosessantasei.
844 Poi guardai ed ecco l'Agnello ritto sul monte Sion e insieme centoquarantaquattromila persone che recavano scritto sulla fronte il suo nome e il nome del Padre suo. Udii una voce che veniva dal cielo, come un fragore di grandi acque e come un rimbombo di forte tuono. La voce che udii era come quella di suonatori di arpa che si accompagnano nel canto con le loro arpe. Essi cantavano un cantico nuovo davanti al trono e davanti ai quattro esseri viventi e ai vegliardi. E nessuno poteva comprendere quel cantico se non i centoquarantaquattromila, i redenti della terra. Questi non si sono contaminati con donne, sono infatti vergini e seguono l'Agnello dovunque va. Essi sono stati redenti tra gli uomini come primizie per Dio e per l'Agnello. Non fu trovata menzogna sulla loro bocca; sono senza macchia.
845 Poi vidi un altro angelo che volando in mezzo al cielo recava un vangelo eterno da annunziare agli abitanti della terra e ad ogni nazione, razza, lingua e popolo. Egli gridava a gran voce:
846 Io guardai ancora ed ecco una nube bianca e sulla nube uno stava seduto, simile a un Figlio d'uomo; aveva sul capo una corona d'oro e in mano una falce affilata. Un altro angelo uscì dal tempio, gridando a gran voce a colui che era seduto sulla nube: "Getta la tua falce e mieti; è giunta l'ora di mietere, perché la messe della terra è matura". Allora colui che era seduto sulla nuvola gettò la sua falce sulla terra e la terra fu mietuta.
847 Allora un altro angelo uscì dal tempio che è nel cielo, anch'egli tenendo una falce affilata. Un altro angelo, che ha potere sul fuoco, uscì dall'altare e gridò a gran voce a quello che aveva la falce affilata: "Getta la tua falce affilata e vendemmia i grappoli della vigna della terra, perché le sue uve sono mature". L'angelo gettò la sua falce sulla terra, vendemmiò la vigna della terra e gettò l'uva nel grande tino dell'ira di Dio. Il tino fu pigiato fuori della città e dal tino uscì sangue fino al morso dei cavalli, per una distanza di duecento miglia.
848 Poi vidi nel cielo un altro segno grande e meraviglioso: sette angeli che avevano sette flagelli; gli ultimi, poiché con essi si deve compiere l'ira di Dio.
849 Vidi pure come un mare di cristallo misto a fuoco e coloro che avevano vinto la bestia e la sua immagine e il numero del suo nome, stavano ritti sul mare di cristallo. Accompagnando il canto con le arpe divine, cantavano il cantico di Mosè, servo di Dio, e il cantico dell'Agnello:
850 Dopo ciò vidi aprirsi nel cielo il tempio che contiene la Tenda della Testimonianza; dal tempio uscirono i sette angeli che avevano i sette flagelli, vestiti di lino puro, splendente, e cinti al petto di cinture d'oro. Uno dei quattro esseri viventi diede ai sette angeli sette coppe d'oro colme dell'ira di Dio che vive nei secoli dei secoli. Il tempio si riempì del fumo che usciva dalla gloria di Dio e dalla sua potenza: nessuno poteva entrare nel tempio finché non avessero termine i sette flagelli dei sette angeli.
851 Udii poi una gran voce dal tempio che diceva ai sette angeli: "Andate e versate sulla terra le sette coppe dell'ira di Dio".
852 Partì il primo e versò la sua coppa sopra la terra; e scoppiò una piaga dolorosa e maligna sugli uomini che recavano il marchio della bestia e si prostravano davanti alla sua statua.
853 Il secondo versò la sua coppa nel mare che diventò sangue come quello di un morto e perì ogni essere vivente che si trovava nel mare.
854 Il terzo versò la sua coppa nei fiumi e nelle sorgenti delle acque, e diventarono sangue. Allora udii l'angelo delle acque che diceva:
855 Il quarto versò la sua coppa sul sole e gli fu concesso di bruciare gli uomini con il fuoco. E gli uomini bruciarono per il terribile calore e bestemmiarono il nome di Dio che ha in suo potere tali flagelli, invece di ravvedersi per rendergli omaggio.
856 Il quinto versò la sua coppa sul trono della bestia e il suo regno fu avvolto dalle tenebre. Gli uomini si mordevano la lingua per il dolore e bestemmiarono il Dio del cielo a causa dei dolori e delle piaghe, invece di pentirsi delle loro azioni.
857 Il sesto versò la sua coppa sopra il gran fiume Eufràte e le sue acque furono prosciugate per preparare il passaggio ai re dell'oriente. Poi dalla bocca del drago e dalla bocca della bestia e dalla bocca del falso profeta vidi uscire tre spiriti immondi, simili a rane: sono infatti spiriti di demòni che operano prodigi e vanno a radunare tutti i re di tutta la terra per la guerra del gran giorno di Dio onnipotente.
858 Ecco, io vengo come un ladro. Beato chi è vigilante e conserva le sue vesti per non andar nudo e lasciar vedere le sue vergogne.
859 E radunarono i re nel luogo che in ebraico si chiama Armaghedòn.
860 Il settimo versò la sua coppa nell'aria e uscì dal tempio, dalla parte del trono, una voce potente che diceva: "È fatto!". Ne seguirono folgori, clamori e tuoni, accompagnati da un grande terremoto, di cui non vi era mai stato l'uguale da quando gli uomini vivono sopra la terra. La grande città si squarciò in tre parti e crollarono le città delle nazioni. Dio si ricordò di Babilonia la grande, per darle da bere la coppa di vino della sua ira ardente. Ogni isola scomparve e i monti si dileguarono. E grandine enorme del peso di mezzo quintale scrosciò dal cielo sopra gli uomini, e gli uomini bestemmiarono Dio a causa del flagello della grandine, poiché era davvero un grande flagello.
861 Allora uno dei sette angeli che hanno le sette coppe mi si avvicinò e parlò con me: "Vieni, ti farò vedere la condanna della grande prostituta che siede presso le grandi acque. Con lei si sono prostituiti i re della terra e gli abitanti della terra si sono inebriati del vino della sua prostituzione". L'angelo mi trasportò in spirito nel deserto. Là vidi una donna seduta sopra una bestia scarlatta, coperta di nomi blasfemi, con sette teste e dieci corna. La donna era ammantata di porpora e di scarlatto, adorna d'oro, di pietre preziose e di perle, teneva in mano una coppa d'oro, colma degli abomini e delle immondezze della sua prostituzione. Sulla fronte aveva scritto un nome misterioso: "Babilonia la grande, la madre delle prostitute e degli abomini della terra".
862 E vidi che quella donna era ebbra del sangue dei santi e del sangue dei martiri di Gesù. Al vederla, fui preso da grande stupore. Ma l'angelo mi disse: "Perché ti meravigli? Io ti spiegherò il mistero della donna e della bestia che la porta, con sette teste e dieci corna.
863 La bestia che hai visto era ma non è più, salirà dall'Abisso, ma per andare in perdizione. E gli abitanti della terra, il cui nome non è scritto nel libro della vita fin dalla fondazione del mondo, stupiranno al vedere che la bestia era e non è più, ma riapparirà. Qui ci vuole una mente che abbia saggezza. Le sette teste sono i sette colli sui quali è seduta la donna; e sono anche sette re. ]I primi cinque sono caduti, ne resta uno ancora in vita, l'altro non è ancora venuto e quando sarà venuto, dovrà rimanere per poco. Quanto alla bestia che era e non è più, è ad un tempo l'ottavo re e uno dei sette, ma va in perdizione. Le dieci corna che hai viste sono dieci re, i quali non hanno ancora ricevuto un regno, ma riceveranno potere regale, per un'ora soltanto insieme con la bestia. Questi hanno un unico intento: consegnare la loro forza e il loro potere alla bestia. Essi combatteranno contro l'Agnello, ma l'Agnello li vincerà, perché è il Signore dei signori e il Re dei re e quelli con lui sono i chiamati, gli eletti e i fedeli".
864 Poi l'angelo mi disse: "Le acque che hai viste, presso le quali siede la prostituta, simboleggiano popoli, moltitudini, genti e lingue. Le dieci corna che hai viste e la bestia odieranno la prostituta, la spoglieranno e la lasceranno nuda, ne mangeranno le carni e la bruceranno col fuoco. Dio infatti ha messo loro in cuore di realizzare il suo disegno e di accordarsi per affidare il loro regno alla bestia, finché si realizzino le parole di Dio. La donna che hai vista simboleggia la città grande, che regna su tutti i re della terra".
865 Dopo ciò, vidi un altro angelo discendere dal cielo con grande potere e la terra fu illuminata dal suo splendore.
866 Un angelo possente prese allora una pietra grande come una mola, e la gettò nel mare esclamando:
867 Dopo ciò, udii come una voce potente di una folla immensa nel cielo che diceva:
868 Vidi poi un angelo che scendeva dal cielo con la chiave dell'Abisso e una gran catena in mano. Afferrò il dragone, il serpente antico - cioè il diavolo, satana - e lo incatenò per mille anni; lo gettò nell'Abisso, ve lo rinchiuse e ne sigillò la porta sopra di lui, perché non seducesse più le nazioni, fino al compimento dei mille anni. Dopo questi dovrà essere sciolto per un po' di tempo. Poi vidi alcuni troni e a quelli che vi si sedettero fu dato il potere di giudicare. Vidi anche le anime dei decapitati a causa della testimonanza di Gesù e della parola di Dio, e quanti non avevano adorato la bestia e la sua statua e non ne avevano ricevuto il marchio sulla fronte e sulla mano. Essi ripresero vita e regnarono con Cristo per mille anni; gli altri morti invece non tornarono in vita fino al compimento dei mille anni. Questa è la prima risurrezione. Beati e santi coloro che prendon parte alla prima risurrezione. Su di loro non ha potere la seconda morte, ma saranno sacerdoti di Dio e del Cristo e regneranno con lui per mille anni.
869 Quando i mille anni saranno compiuti, satana verrà liberato dal suo carcere e uscirà per sedurre le nazioni ai quattro punti della terra, Gog e Magòg, per adunarli per la guerra: il loro numero sarà come la sabbia del mare. Marciarono su tutta la superficie della terra e cinsero d'assedio l'accampamento dei santi e la città diletta. Ma un fuoco scese dal cielo e li divorò. E il diavolo, che li aveva sedotti, fu gettato nello stagno di fuoco e zolfo, dove sono anche la bestia e il falso profeta: saranno tormentati giorno e notte per i secoli dei secoli.
870 Vidi poi un grande trono bianco e Colui che sedeva su di esso. Dalla sua presenza erano scomparsi la terra e il cielo senza lasciar traccia di sé. Poi vidi i morti, grandi e piccoli, ritti davanti al trono. Furono aperti dei libri. Fu aperto anche un altro libro, quello della vita. I morti vennero giudicati in base a ciò che era scritto in quei libri, ciascuno secondo le sue opere. Il mare restituì i morti che esso custodiva e la morte e gli inferi resero i morti da loro custoditi e ciascuno venne giudicato secondo le sue opere. Poi la morte e gli inferi furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la seconda morte, lo stagno di fuoco. E chi non era scritto nel libro della vita fu gettato nello stagno di fuoco.
871 Poi venne uno dei sette angeli che hanno le sette coppe piene degli ultimi sette flagelli e mi parlò: "Vieni, ti mostrerò la fidanzata, la sposa dell'Agnello". L'angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino. La città è cinta da un grande e alto muro con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d'Israele. ]'A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e ad occidente tre porte. Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell'Agnello.
872 Colui che mi parlava aveva come misura una canna d'oro, per misurare la città, le sue porte e le sue mura. La città è a forma di quadrato, la sua lunghezza è uguale alla larghezza. L'angelo misurò la città con la canna: misura dodici mila stadi; la lunghezza, la larghezza e l'altezza sono eguali. Ne misurò anche le mura: sono alte centoquarantaquattro braccia, secondo la misura in uso tra gli uomini adoperata dall'angelo. Le mura sono costruite con diaspro e la città è di oro puro, simile a terso cristallo. Le fondamenta delle mura della città sono adorne di ogni specie di pietre preziose. Il primo fondamento è di diaspro, il secondo di zaffìro, il terzo di calcedònio, il quarto di smeraldo, il quinto di sardònice, il sesto di cornalina, il settimo di crisòlito, l'ottavo di berillo, il nono di topazio, il decimo di crisopazio, l'undecimo di giacinto, il dodicesimo di ametista. E le dodici porte sono dodici perle; ciascuna porta è formata da una sola perla. E la piazza della città è di oro puro, come cristallo trasparente.
873 Non vidi alcun tempio in essa perché il Signore Dio, l'Onnipotente, e l'Agnello sono il suo tempio. La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l'Agnello.
874 Mi mostrò poi un fiume d'acqua viva limpida come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell'Agnello. In mezzo alla piazza della città e da una parte e dall'altra del fiume si trova un albero di vita che da' dodici raccolti e produce frutti ogni mese; le foglie dell'albero servono a guarire le nazioni.
875 Matteo Fasanella.